Non profit

L’assurdo privilegio di essere profughi in Ciad

L'assistenza umanitaria aveva dimenticato la popolazione locale

di Emanuela Citterio

Nel paese vivono 490mila sfollati da Sudan e Centrafrica. Gli aiuti internazionali si rivolgevano solo a loro. Fino a che non è intervenuta l’ong italiana Acra. «Si rischiava di produrre ineguaglianza più che integrazione», spiega il capo progetto Baldal Yanko Guerre dimenticate. Ci sono Paesi che le vivono di riflesso. Come il Ciad: 370mila sfollati dal Sudan e 120mila dalla Repubblica Centrafricana. I primi, in fuga dal Darfur, hanno riparato oltre confine dal 2003. I secondi si sono lasciati alle spalle una guerra meno famosa, ma che mantiene il Paese in una situazione di perenne instabilità dal 2002. Al confine fra Centrafrica e Ciad, nell’aprile del 2007 è stata rilevata la presenza di depositi petroliferi.
Baldal Yanko, ospite nella redazione di Vita, non si sofferma sulla geopolitica, ma sulla vita della popolazione in quest’area strategica e al tempo stesso dimenticata. È capo progetto per l’ong italiana Acra in Ciad, di professione formatore. Originario dell’area rurale del Gran Sido, nel Sud del Paese, raggiunta quasi per nulla da servizi e infrastrutture, ha studiato all’estero per poi tornare in patria e avviare progetti di sviluppo incentrati sull’educazione. «Su una popolazione di 50mila abitanti l’arrivo di 16mila profughi provenienti dal Centrafrica ha creato seri problemi di integrazione con la popolazione autoctona e di gestione delle risorse in un’area già povera», spiega. «E anche l’aiuto internazionale è stato un fattore di squilibrio». Nel Sud del Ciad sono arrivate diverse organizzazioni internazionali per dare assistenza ai profughi, da agenzie delle Nazioni Unite come Unhcr e World food programm a grandi organizzazioni umanitarie private. «Il problema è che non si occupano che dei rifugiati, in un contesto dove le condizioni di vita della popolazione autoctona sono molto simili a quelle di chi è arrivato da oltre confine», spiega Yanko.
«La scuola più grande e bella della zona, con 37 classi, è stata costruita per i rifugiati, e fino a poco fa non poteva essere frequentata da ragazzi del posto». Mandare i figli a scuola per le famiglie che abitano nel dipartimento del Gran Sido è una sfida quotidiana. La regione è tra le aree del Ciad con il più alto tasso di analfabetismo, fino al 70% fra gli uomini e all’80% fra le donne. Il sistema educativo è fragile: scuole di paglia o costruite con materiali di fortuna, classi sovraffollate anche con 150 alunni, scarsità di materiale. «Gli aiuti “mirati” rischiavano di produrre ineguaglianza più che integrazione». Con i responsabili della comunità locale, Yanko ha chiesto che anche gli autoctoni potessero accedere alla scuola e ai servizi. «Abbiamo sollecitato i partner internazionali proponendo un altro tipo di approccio. L’Unicef ne ha riconosciuto la validità e di recente abbiamo siglato un protocollo». E il «Linking relief rehabilitation and development», programma di assistenza ai rifugiati cofinanziato dall’Unione europea nel quale si colloca l’intervento di Acra, tiene conto di questo nuovo approccio.


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