Non profit
L’architettura a ritmo di danza sbarca a Venezia
Francis Kéré, dal Burkina Faso alla Biennale
Dice che «costruire è un evento, una festa per la comunità. Che va coinvolta con soluzioni semplici». Una ricetta tutta africana che però piace anche all’Europa «Se vedete un villaggio di capanne in Africa, vi prego, non dite che è pittoresco, perché nessuno di voi ci vivrebbe». Diébédo Francis Kéré è un giovane architetto africano di fama internazionale, protagonista alla XII Biennale di architettura di Venezia. Il suo lavoro è il simbolo di uno sviluppo diverso in Africa, che coinvolge le persone, sviluppa nuove soluzioni facendo i conti con le scarse risorse disponibili e le condizioni climatiche estreme. «Nel mio Paese, il Burkina Faso, se riesci a costruire un muro che sta in piedi anche dopo la stagione delle piogge, la gente è felice».
«Da bambino», racconta, «ho dovuto allontanarmi dalla mia famiglia per andare a studiare, perché a Gando, il villaggio in cui sono nato, non c’erano né scuola né insegnanti e ogni volta che tornavo a casa, le donne del villaggio mi prendevano da parte e mi davano i pochi spiccioli che avevano». Francis, il figlio maggiore del capo villaggio, non capiva perché le donne gli volessero tanto bene, finché sua madre gli ha spiegato che così tutta la comunità sosteneva i suoi studi.
Grazie a una borsa di studio ha potuto studiare architettura a Berlino e, non ancora laureato, ha fondato nel 1998 l’associazione Schulbausteine für Gando, con l’obiettivo di raccogliere fondi per costruire una scuola nel suo villaggio. «Avevo un pensiero fisso: trovare il modo per restituire qualcosa alla mia gente, mettere a loro disposizione le mie conoscenze, in un Paese dove l’80% della popolazione è analfabeta». Quando è arrivato a Gando e ha annunciato che avrebbe costruito una scuola, terminata poi nel 2001, tutti erano felicissimi. Ma non è stato facile convincere la gente a usare mattoni di terra cruda essiccata al sole: ci hanno creduto solo dopo la prima stagione delle piogge. L’uso di questi “blocchi” al posto dei classici mattoni riduce costi ed energia. Spiega Kéré: «Ho imparato dalla tradizione africana il rispetto per la natura e la ricerca di soluzioni per usare il meno possibile per ottenere il massimo. È quello che voi chiamate sostenibilità».
«Adoro l’architettura, ma credo che ci sia bisogno di soluzioni semplici, alla portata di tutti. Dobbiamo saper fare un passo indietro e restituire l’architettura a chi la vive», prosegue, «i miei punti di riferimento sono i grandi architetti che sanno lavorare immersi in un contesto sociale, con le persone, senza proporre cose troppo complicate. Ma l’idea di lavorare con la gente, saper conquistare la loro fiducia, per me, deriva anche dalla tradizione africana». In linea con questo pensiero, a Gando, Francis ha dovuto trovare nuove soluzioni per formare la sua forza lavoro. Non poteva certo arrivare con libri e disegni, nessuno lo avrebbe capito. Ha coinvolto tutti: uomini, donne, anziani e bambini. «Capiamoci, il mio non è sfruttamento dei minori… Costruire è un evento sociale, diventa una grande festa in cui si batte il pavimento di terra a ritmo di musica, ballando. Non potevamo certo escludere i bambini», racconta.
I muri e la copertura della scuola sono in mattoni di terra cruda, sovrastata da una seconda copertura in lamiera, che viene sostenuta da una struttura reticolare in ferro. In questo modo si favorisce la ventilazione naturale dei locali e, grazie al riparo dal sole, si aumenta la differenza tra la temperatura esterna e quella interna. «Far passare aria, anche se calda, è l’unico modo che abbiamo per difenderci dal calore».
Dopo la prima scuola, ne sono seguite altre, che da ottobre 2010 ospiteranno ben 900 bambini e ragazzi burkinabé. Oltre a edifici a uso pubblico, Kéré sta sviluppando modelli di social housing ad Ougadougou, la capitale. Ha lavorato anche in Mali, costruendo una struttura all’interno di un parco pubblico di Bamako, anche lì coinvolgendo la gente.
Alla domanda se anche l’Europa abbia qualcosa da imparare da lui, Kéré sorride, quasi imbarazzato: «Forse sì, se un giorno capiremo che l’uso di materiali locali e il coinvolgimento della gente è il modo migliore che abbiamo per far fronte al cambiamento climatico e al limite delle risorse naturali. Forse anche l’Europa potrebbe scoprire che ci sono soluzioni migliori di quelle che oggi sono considerate convenzionali».
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