I commenti del giorno dopo erano del tutto prevedibili: le ragioni della critica all’Expo sono state spazzate via dal tavolo, soffocate dal coro unanime delle condanne delle violenze. Un coro a cui sembra sfuggire il senso delle proporzioni laddove sceglie di titolo di “Milano messa a ferro e fuoco”. Diversamente, devastazioni e incidenti hanno riguardato, per fortuna, solo poche vie, comportando qualche vetrina rotta e qualche macchina distrutta. Fatto comunque sicuramente grave, specie per un movimento che critica la logica delle Grandi opere anche in nome della bellezza e della difesa dalla deturpazione del territorio e delle città che affarismo, cementificazione e mafie perseguono con grande cinismo e, ahimè, grande efficacia.
Il dato positivamente anomalo degli scontri di Milano è, però, quello che nessuno si è fatto male; i danni, infatti, sono stati solo alle cose. Il che dimostra due cose: 1) che polizia, guardia di finanza e carabinieri, presenti in forze, avevano ricevuto istruzioni di limitare i danni e di evitare la degenerazione dell’intero corteo; 2) che è sempre la politica, e a seguire i vertici delle polizie, a decidere caratteristiche e limiti dell’ordine pubblico. Il massacro indiscriminato e le torture di Genova 2001, insomma, furono una indicazione venuta dal governo dell’epoca: con ministri in visita a Bolzaneto mentre erano in corso le torture sugli arrestati e vicepresidenti del Consiglio presenti nella sala operativa della questura, mentre la situazione degenerava a causa della (in)gestione della piazza da parte delle “forze dell’ordine” e dei violenti attacchi a freddo contro i manifestanti pacifici, vale a dire la gran parte del corteo genovese. Del resto, in seguito un altro ministro, poi inciampato in un appartamento al Colosseo, ammise che in quell’occasione diede alla polizia licenza di sparare.
Per una – non frequente – volta, dunque, la polizia ha agito in piazza senza pericolosi eccessi di reazione. Qualcuno provi a spiegarlo al segretario della Lega che anche in quest’occasione, invece, cerca di buttare benzina sul fuoco, con una logica simmetrica a quella degli incappucciati promotori delle violenze.
Violenze altrettanto prevedibili e previste: tanto tuonò che piovve. Eppure un dato straordinario del Mayday di Milano risulta totalmente assente nella riflessione e nelle cronache: nonostante gli allarmismi e l’effettivo rischio, almeno ventimila persone sono scese per strada a manifestare. Un popolo variopinto che non si è lasciato spaventare o mettere nell’angolo dai prevaricatori e dal fantasma della polizia scatenata come nel G8. Decine di migliaia di persone che, da anni, si oppongono con determinazione al “sistema” Incalza e ai tanti suoi derivati e predecessori, all’immane esproprio di risorse pubbliche e alla devastazione (questa sì enorme e irrimediabile) di interi territori a beneficio di corrotti, corruttori, mafie e multinazionali, ovvero di quanti perseguono la logica del massimo, e personale, profitto, a tutto discapito dell’interesse e bene pubblico nonché dei diritti delle future generazioni.
Il dato politico è, dovrebbe, essere quello dei ventimila che non si sono fatti zittire o costringere a stare a casa. E perciò si capiscono bene l’enfasi e l’obiettiva esagerazione dei commenti del giorno dopo. Al di là della buonafede di qualcuno, si tratta di una cortina fumogena utile a continuare a fare affari o comunque a non mettere in discussione l’attuale modello di sviluppo, fallimentare e distruttivo: quello della crescita infinita, della cementificazione selvaggia, della finanziarizzazione dell’economia, della civiltà dello spreco che convive con la penuria alimentare grazie al trionfo delle diseguaglianze, a livello globale così come locale.
Non è allora un caso se la politica è complice o incapace di capire o, peggio, indifferente e se le parole meno grigie sono arrivate da papa Francesco.
Se alle nuove generazioni, così come ai milioni di famiglie ferite dalla crisi, si sa offrire solo precariato, o, peggio, lavoro gratuito, conditi con la retorica e le sfilate dei vip festanti non ci si dovrebbe stupire che crescano rabbia e violenza.
Diseguaglianze, retorica e menzogne possono produrre mostri.
L’antidoto non sono le frasi vuote e scontate di condanna, sono le parole di verità. A cui necessariamente far seguire politiche di giustizia.
Parole che in questi giorni si sono udite poco, e mai dai palchi, semmai dalle strade. Sono venute non dalla voce roboante e onnipresente della politica e dei commentatori mainstream ma dalla cultura, la cui voce è sempre più flebile e isolata e però sempre più preziosa.
Parole come quelle di Ermanno Olmi, a proposito di Expo e del suo tema: «Coloro che fanno del cibo solo uno strumento di guadagno, vanno indicati come responsabili di una piaga che va oltre l’ingiustizia sociale. Quali che siano le loro intenzioni, l’iniqua distribuzione delle risorse contribuisce a fare della nostra epoca il tempo dell’odio e dell’indifferenza». E ancora: «Per dare un’anima all’Expo di Milano, oggi, all’inaugurazione ufficiale, bisognerebbe far sedere in prima fila i profughi dalla Siria e dall’Eritrea. Basterebbe andare a recuperarli nell’atrio della Stazione Centrale, dove si sdraiano esausti dopo essere sfuggiti alla morte nel Mediterraneo».
In prima fila, invece, abbiamo visto rappresentanti di caste e società per azioni ripetere parole stanche e prevedibili, proprio come le violenze accadute.
A nessuno di loro è venuto in mente di far propria la semplice e simbolica proposta di Gad Lerner: «Dedichiamo il Primo maggio 2015 a Klodian Elezi, 21 anni, nato in Albania, morto cadendo da un ponteggio mentre lavorava a un’opera per Expo».
Klodian Elezi . Un nome, invece, mai nominato. Avrebbe potuto guastare la festa, assai più delle auto bruciate.
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