Welfare

Lampedusa, così il teatro trova le parole

Marco Martinelli nel 2010, dopo un anno vissuto a Mazara del Vallo, ha scritto e messo in scena un testo sulla tragedia dei migranti, “Rumore di acque”. A lui abbiamo chiesto cosa può fare un artista di fronte a tragedie che tolgono il fiato

di Davide Brullo

Il tango dei perbenisti mi ha stufato. L’orrore a Lampedusa ha straziato il cuore di tutti i mortali. E pure dei teatranti. Che hanno intonato i consueti peana, come si fa a salire sul palco. Al cambiar delle stagioni (ma oggi dovremmo dire delle settimane), se ad ogni stagione (o settimana) la gente continua a morire incagliandosi e rovesciandosi negli abissi del mediterraneo? Ma poi, the show must go on, in attesa del prossimo massacro di migrati (quando domani? Settimana prossima?) che consenta le consuetudinarie belle parole e bei gesti, di noi, dei nostri politici e dei teatranti. Eppure, basta guardarsi in giro famelici per trovare parole non banali e di rito.

Marco Martinelli del Teatro delle Albe di Ravenna ha scritto nel 2010 Rumore di acque, il testo che ci scaglia in faccia l’inferno dei migranti, frutto di una catabasi nel delirio di Mazara del Vallo. È a lui che mi rivolgo per capire come si trovano le parole, come si mette in scena l’assassinio e la tragedia. “Bisogna superare il primo momento in cui si è letteralmente senza voce», racconta Martinelli, «così come eravamo senza voce quando a Mazara ascoltavamo le storie dei migranti, adolescenti e bambini, che avevano visto morire fratelli, madri, parenti. Ma poi, occorre prendere voce, con l’umile orgoglio di chi sa di dover accesa una fiamma nel buio. L’arte ha sempre fatto questo. Pensi ad Aristofane, che per trent’anni, dalla Lisistrata a La pace, scrive contro la guerra nonostante la guerra andasse avanti. Questo è il  il nostro dovere, la nostra missione: tenere aperte le menti e i cuori, scavare brecce per far filtrare la luce».

Il bello di Rumore di acque, però, è che nel restituire i dati della cronaca nuda, s’innesta la trasfigurazione dell’artista. Faccio riferimento alla figura di iena del “Generale” che tiranneggia sulla scena. «L’arte non è informazione, può nutrirsi di tutta la realtà possibile, ma se non scatta il meccanismo della trasfigurazione, o della visione, non è arte. Il Generale è inquietante perché puoi vederci tutti i potenti del mondo, quelli della contabilità e delle procedure, quelli che hanno colpe enormi su queste tragedia, ma il Generale raffigura anche la maschera mostruosa della nostra indifferenza ed egoismo, la mia di autore, la tua, quella degli spettatori».  E adesso, dopo le tragedie, non crede tornerà, a poco a poco, tutto come prima?

«È un pericolo, anche perché di tragedie così, più o meno visibili, è piena la storia degli ultimi vent’anni. Ma stavolta c’è un livello di attenzione mediatica, lo dico volgarmente, molto più alto. Perché? Una delle ragioni, credo, è perché prima di Alfano o di Barroso e Letta che non avevano mai messo piedi a Lampedusa, tra i migranti è venuto Papa Francesco. Sorprendo tutti, è stato il suo primo viaggio. E le parole del Papa a Lampedusa sono state altissime, come i suoi gesti. Stavolta, credo, qualcosa si farà».

Uno dei lavori più recenti del Teatro delle Albe è A te come te, tratto dagli articoli di Giovanni Testori, e le sue sono parole deflagranti. «Io e Ermanna (ndr. compagna e collega di scena) siamo sempre stati affascinati da Testori sin da quando, 40 anni fa, andò in scena il Macbetto al con Franco Parenti. Testori sapeva trovare le parole da vero intellettuale e scrittore. Oggi siamo in tritacarne dove i veri intellettuali sono annichiliti dagli starnazzamenti dei media che sembra corrompano tutto, a partire dalle parole. Il ruolo dell’intellettuale è tenere viva la testimonianza. In un bellissimo testo, il Discorso sulla servitù, Ètienne de la Boétie, già nel Cinquecento, ci dice che l’intellettuale non deve stare a corte, altrimenti è un servo, deve invece dire liberamente la sua piccola, parziale verità. Oggi la corte è il salotto televisivo, bisogna vere il coraggio di non frequentarli e ciascuno, nel proprio ambito, anche misero e piccolo, mantenere libera la propria voce per dare voce anche alle tragedie invisibili che si consumano». Rumore di acque è stato presentato una settimana fa a Marsiglia, a febbraio arriverà a Parigi e dalla Germania acquisito i diritti per la traduzione del testo: «In queste settimane mi arrivano molte lettere sullo spettacolo e l’attenzione che trova in Europa sono segno che la tragedia dei migranti sta facendo breccia nell’indifferenza e negli egoismi europei».
 
 
Lo spettacolo
Un generale, in collaborazione con un fantomatico Ministro dell'Inferno, pratica accoglimenti e respingimenti su un'isola. E li racconta in un lungo elenco di numeri che nascondono vivi e morti, vite e morti, sistemati e censiti con orribile precisione e maniacalità, sempre più parossistica, aberrante, folle. Renda è il generale che riunisce le voci della disperazione e dei racconti dolorosi di chi sulle barche alla deriva ha provato a salvare un'amica, un parente.
Questo lavoro nasce tra gli appunti di Martinelli, dal suo quaderno dei viaggi a Mazara durati più di un anno.  Il protagonista di questo oratorio tragico che si accende di colori grotteschi è   servile, nonostante il metallo delle medaglie un piccolo soldaticchio dipendente, si scoprirà alla fine, da un Ministro dell’Inferno. Tenta disperatamente di tenere aggiornata la lista dei morti e dei dispersi nelle acque tra l’Africa e l’Europa. Governa un’isola, uno scoglio, dove non ci sono respingimenti: dove le anime, anche quelle senza nome, vengono accolte, una volta sprofondate. Ma la contabilità di una simile carneficina non è semplice: i numeri, i nomi si confondono, come i corpi accalcati sui barconi, straziati dalle eliche di improvvide navi di salvataggio, pastura pesci che concludono il lavoro di macelleria dell’uomo.


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