Governance pubblica

L’amministrazione condivisa è un metodo di governo, non un esercizio decorativo

«Perché la cura dei territori è spesso correlata a un nuovo centralismo burocratico? E perché le voci della società civile sembrano non trovare eco nelle politiche? Serve una visione di amministrazione condivisa che faccia scalare la dimensione collaborativa verso nuove forme di neo-mutualismo». L'intervento del direttore di Aiccon

di Paolo Venturi

L’attuale scenario socio-economico è segnato da paradossi apparentemente irrisolvibili. Mentre la sostenibilità emerge come imperativo categorico per il nostro futuro, è difficile ignorare l’ineguaglianza in costante crescita che accompagna questa fase storica. Ci chiediamo: perché la cura dei territori è spesso correlata a un nuovo centralismo burocratico? E perché le voci della società civile, seppur ricche di proposte innovative, sembrano non trovare eco nelle politiche? La realtà ci interpella: è ora di passare dalla diagnosi alla terapia.

Non è sufficiente attivare principi e pratiche; occorre ancorarli ad obiettivi di cambiamento istituzionale. Il problema non sta appena nel contrastare la rendita (economica, politica e sociale) nella sua incessante attività di iniziative strumentali (utili per innovazioni di superfice, che si propongono di cambiare tutto per poi non cambiare nulla), ma nel capire come l’attivismo, l’innovazione sociale, il mutualismo e la società civile possano effettivamente entrare nel campo da gioco con un ruolo riconosciuto e riconoscibile. La storia italiana ci offre preziose lezioni su come il cambiamento possa avvenire dall’interno del tessuto sociale. Il riformismo sociale e la pressione dalla base hanno generato istituzioni nuove e vitali, come le cooperative sociali, riconosciute poi normativamente per il loro contributo al bene comune.

L’impressione è che oggi non manchi la ricchezza di pratiche, la spinta dal basso di una moltitudine di istituzioni terze che raccontano nuovi modelli di welfare e di economia e neppure la strumentazione normativa e amministrativa (mai così ricca e dettagliata), ciò che sembra mancare è la volontà di tradurre queste idee in azioni istituzionali e di incarnare dentro le organizzazioni, quelle scelte capaci di alimentare nuove geografie di potere, di valore e di socialità.

Il direttore di VITA Stefano Arduini con il sindaco Matteo Lepore in occasione degli Stati Generali dell’amministrazione condivisa che si sono tenuti a Bologna il 15 e il 16 marzo

Pensare che la vita politica e democratica si riduca al solo esercizio del voto è una distorsione di cui dobbiamo essere consapevoli: non possiamo rinunciare alla responsabilità personale poiché l’inizio del cambiamento coincide con la presa di coscienza che la persona debba essere protagonista della realtà e non svolgere un semplice ruolo da spettatore. Il benessere della società dipende dall’equilibrio tra beni privati, pubblici e comuni, eppure, finora, si è dato troppo peso ai primi a discapito degli ultimi. Molti pensano che il tema dei beni comuni equivalga al “buttare la palla in tribuna” perché poco concreto e incidente, ma in realtà è proprio su questo equivoco che nascono i fallimenti di Stato e Mercato e si impoverisce la dotazione di capitale sociale e culturale.


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L’incapacità di affrontare le transizioni in atto è la conseguenza dell’incapacità di assumere una diversa prospettiva dei problemi. L’inerzia può essere rotta solo con un’azione contributiva che vada oltre le linee guida, i toolkit, le metriche e che ambisca a diventare un vero e proprio processo istituente, nutrito da persone con motivazioni solide tanto quanto le competenze. Nei cambi d’epoca, come quello attuale, diventa necessario riarticolare interdipendenza e individualismo, in nuove forme generative di legame sociale, serve però un processo comune che funga da “addensante” per alimentare una nuova fase d’innovazione sociale.  Un “addensante” che eviti processi estrattivi e che incoraggi il nuovo ad emergere: troppe risorse sono destinate alla ristrutturazione del “vecchio” e troppe poche sono messe a disposizione del nuovo (questo vale tanto per l’economia quanto per il sociale).

Serve un’azione che costruisca il presente del futuro, un pragmatismo strategico che ancori fin dall’inizio le sperimentazioni di pochi a alle politiche per tutti, una visione di amministrazione condivisa che faccia scalare la dimensione collaborativa verso nuove forme di neo-mutualismo, di una sussidiarietà che non sia un esercizio estetico, ma un metodo per potenziare la diversità e la libertà, di una misurazione dell’impatto sociale che non sia un esercizio statistico che monetizza l’azione gratuita (sic!).

Siamo chiamati a progettare cambiamento, dandogli obiettivi concreti da raggiungere insieme.

Foto: le catacombe di San Gennaro a Napoli, esempio riuscito di collaborazione fra pubblico e privato sociale/Archivio VITA

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