Leggi & Diritti
L’amministratore di sostegno compie 20 anni: quattro proposte per aggiornarlo
La legge numero 6 del 9 gennaio 2004 cambiava l'approccio giuridico all'esercizio dei diritti della persona con una malattia mentale e di tutte le persone fragili, superando la logica dell'interdizione e dell'inabilitazione. Oggi sono 400mila i fascicoli aperti. Un bilancio dei primi vent'anni e uno sguardo sul futuro con il giurista Paolo Cendon, padre di quella legge
Prima di lui, nel nostro ordinamento giuridico c’erano due soli strumenti per tutelare la persona che, per effetto di una infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi: l’interdizione (con la conseguente nomina di un tutore) o l’inabilitazione (con la nomina di un curatore).
“Lui” è l’amministratore di sostegno, istituto introdotto per assicurare la massima protezione con la minore limitazione possibile della capacità di agire. Fu introdotto nel Codice civile con la legge 9 gennaio 2004 numero 6, che entrò in vigore il 19 marzo: l’amministratore di sostegno quindi compie vent’anni. Paolo Cendon di quella legge è il padre: giurista, negli anni Settanta e Ottanta ha collaborato con Franco Basaglia per gli aspetti giuridici della riforma della psichiatria. Ordinario di Diritto privato all’Università di Trieste, dal 2000 è coordinatore scientifico del Tavolo sui diritti delle persone fragili presso il ministero della Giustizia.
Con la “bozza Cendon” lei è il “padre” della legge sull’amministratore di sostegno: da quale bisogno è nata vent’anni fa e come vi ha risposto?
Ho scritto la bozza della legge nel 1986, subito dopo un convegno a Trieste sulla legge Basaglia che si intitolava Un altro diritto per il malato di mente. Scrissi la bozza immaginando un istituto per tutte le persone fragili: fino ad allora il sistema delle risposte, per loro, era quello concepito nell’Ottocento. Ci sono voluti 18 anni perché diventasse legge. L’amministratore di sostegno come istituto ha detronizzato i due precedenti, l’interdizione e l’inabilitazione: ha avuto una crescita impetuosa ed è diventato il riferimento dominante. Dopo 20 anni ci sono più o meno 400mila fascicoli aperti, con una crescita progressiva. Interdizione e inabilitazione – le vecchie risposte – esistono ancora ma sono sempre più desuete e ora c’è un progetto per eliminarle, come hanno già fatto altri Stati europei. Ho presentato una prima bozza per il superamento dell’interdizione già nel 2005. Gli interdetti giudiziali oggi sono circa 140mila, in gran parte si tratta di persone che erano già interdette nel 2004 e non sono state “disinterdette” dai Tribunali, benché questo fosse possibile. Gli inabilitati invece sono circa 20mila.
Ho scritto la bozza legge nel 1986. Immaginai un istituto per tutte le persone fragili: il sistema delle risposte, per loro, era quello concepito nell’Ottocento. Ci sono voluti 18 anni perché diventasse legge
Quanti sono gli amministratori di sostegno?
Difficile dirlo, perché alcuni avvocati hanno decine di casi. Direi che un po’ più della metà dei fascicoli vede un familiare come amministratore di sostegno mentre gli altri, un po’ meno della metà, sono avvocati che seguono più persone.
Oggi qual è il profilo dell’utente? È cambiato rispetto al passato?
La “lista” dei beneficiari comprende non solo i malati mentali in senso stretto, ma tutti coloro che – per una serie di ragioni – non riscono a gestirsi: anziani, persone con disabilità fisica, persone malate o con disturbi invalidanti. È uno strumento molto usato anche in situazioni di dipendenza: sostanze, alcolismo, azzardo, anoressia, disturbi del comportamento alimentare. I bisogni variano molto ma l’elasticità è proprio una caratteristica peculiare dell’istituto. Mentre infatti l’interdizione e l’inabilitazione sono rigide, con un “pacchetto” che una volta deciso resta sempre lo stesso, qui il giudice emana un decreto modellato sulle necessità della persona, che possono essere anche temporanee. Facciamo l’esempio di un tale che fa un incidente e resta per un mese in ospedale, ma in quel mese deve fare un atto legale importante come la compravendita di una casa: potrà avere un amministratore di sostegno “a tempo” e il suo decreto nominerà l’amministratore di sostegno per un solo atto giuridico. Un plus dell’amministrazione di sostegno è proprio il fatto che il giudice prima di pronunciarsi deve parlare con le persone, per confezionare loro un abito su misura.
La “lista” dei beneficiari oggi comprende non solo i malati mentali, ma anziani, persone con disabilità fisica, malate o con disturbi invalidanti, in situazioni di dipendenza. È uno strumento flessibile
Quali sono i limiti o le ombre dell’amministrazione di sostegno?
Le ombre sono legate al fatto che l’amministratore di sostegno ha avuto troppo successo e di conseguenza ha riversato una domanda enorme sui tribunali. Con gli anni si sono acutizzate alcune difficoltà organizzative e alcuni “contrasti” tra la teoria e la pratica. A Roma ad esempio i beneficiari sono più di 20mila, a Milano anche: numeri molto maggiori di quello che si pensava, gli uffici non erano attrezzati, ci sono pochi giudici tutelari. Il fatto, come dicevo prima, è che l’amministrazione di sostegno non è una pratica fatta una volta per tutte, come l’interdizione: le situazioni cambiano nel tempo, le persone tornano dal giudice più e più volte. Questo oggettivamente oggi implica che non sempre le cose siano fatte con la cura che occorrerebbe e che non sempre sia facile trovare un amministratore di sostegno da nominare. Non sempre infatti – diciamolo chiaramente – come amministratore di sostegno può essere nominato un familiare, per varie ragioni: ma quando bisogna cercare fuori dalla cerchia familiare tutto diventa più complicato, perché l’amministratore di sostegno è un’attività che richiede tanto tempo e rende pochissimo. Anche se devo dire che l’obiezione fondamentale dei “potenziali” amministratori di sostegno non è tanto legata al valore dell’indennità ma al fatto che gestire la vita delle persone sia molto, molto complicato.
In che senso?
Fare l’amministratore di sostegno non è solo questione di pagare le bollette e gestire il conto in banca di una persona, come si potrebbe immaginare dall’esterno: non ci sono solo le questioni economiche. Pensiamo alle questioni di salute: dare un consenso informato, scegliere se andare o meno in casa di riposo… sono scelte difficili. Oltretutto le decisioni della vita sono semplici quando il beneficiario è d’accordo con quello che fai come amministratore, ma solitamente questo non accade: soprattutto nei casi di dipendenze, la persona è oppositiva, si creano attriti e conflitti. In generale l’amministratore di sostegno deve in qualche modo assicurarsi che il beneficiario rispetti anche i diritti degli altri, oltre che impedire che venga spolpato da qualche sciacallo. Oppure pensiamo a una persona tossicodipendente o con problemi di gioco patologico: quel che l’amministratore deve fare per adempiere al suo incarico protettivo sarà spesso ciò che il mandante non vuole più, o viceversa. Quindi pur tenendo salda la disposizione di non comprimere la volontà della persona, l’amministratore di sostegno deve anche dire dei “no”: tutti fanno finta che questo problema non esista, ma c’è. Trovare il punto di equilibrio è delicato. La Convezione Onu talora “dimentica” questo aspetto, in modo un po’ antipsichiatrico.
Pur tenendo salda la disposizione di non comprimere la volontà della persona, l’amministratore di sostegno deve anche dire dei “no”: tutti fanno finta che questo problema non esista, ma c’è
Però la vulgata racconta che gli amministratori di sostegno su questa loro attività lucrino. Sa quel che si dice, no? Che gli amministratori di sostegno sono per un terzo indifferenti e senza cuore, per un terzo ladri, per un terzo accaparratori di fascicoli.
La gente pensa questo perché c’è un filone di narrazione che cavalca i casi clamorosi come quelli di Vattimo, Lollobrigida, Buzzanca, Gilardi… Lato giudice ci sono certamente episodi di disattenzione, distrazione, burocratizzazione, ma la regola non è questa: di solito il giudice è molto scrupoloso. Certamente – questo è vero – c’è bisogno di più giudici tutelari. Lato amministratore di sostegno… dipende, come in tutte le cose. Ce ne sono alcuni che hanno 60-70 persone e lì è ovvio che non ci può essere una relazione personale approfondita e che prevalgano la superficialità, ma queste situazioni – che pure esistono – non sono certo tali da mettere in discussione la legge: io direi che per l’80-90% dei casi le cose funzionano.
A proposito di indennità: come funziona esattamente?
Nella legge del 2004 non sono previste risorse per pagare l’amministratore di sostegno: solitamente lo paga il beneficiario. Alcune regioni però hanno emanato delle leggi regionali per dare attuazione alla legge 6/2004 e hanno introdotto un’indennità nel caso di beneficiari che non possono pagare. Questa legge però in 10 regioni non esiste, praticamente metà Italia: in Campania e Lazio per esempio non c’è nulla e così in questi territori diventa davvero difficilissimo trovare amministratori di sostegno, non lo vuole fare nessuno. La Sicilia si sta muovendo ora.
La legge, dopo vent’anni, ha bisogno di un tagliando?
In alcuni punti sì. La prima cosa è che il giudice non dovrebbe essere lasciato solo né prima né dopo a gestire queste situazioni: ci vorrebbe un Ufficio-Sportello comunale per la fragilità, in ogni Comune o Consorzio di Comuni, affidato al coordinamento dell’assessore comunale alle politiche sociali che lo possa gestire eventualmente con una apposita fondazione, che promuova e sovrintenda l’aggregazione delle risorse locali, dell’ente pubblico, del territorio, delle associazioni di Terzo settore… Uno sportello che prenda in carico la fragilità del territorio e lavori per rimuovere gli ostacoli, coinvolgendo tanti soggetti, pubblici e privati. Lo sportello garantirebbe una sorta di regia della vita del fragile nel territorio, in cui c’è anche un “controllo” della persona affinché non sia abbandonata a se stessa. Basaglia diceva che follia non era una questione del solo manicomio: allo stesso modo, la gestione della fragilità non è solo questione giudiziaria ma deve essere una questione di cittadinanza. Bisogna togliere “clandestinità” alla vita di queste persone.
Basaglia diceva che follia non era una questione del solo manicomio: allo stesso modo, la gestione della fragilità non è solo questione giudiziaria ma deve essere una questione di cittadinanza. Bisogna togliere “clandestinità” alla vita di queste persone
Altri suggerimenti?
Almeno altri tre. Uno è il “profilo esistenziale di vita”, una sorta di “scheda” minuziosa che descrive l’identità della persona, con tutti i suoi gusti e le sue abitudini: sì al cioccolato fondente, no al formaggio di capra; sì ai gatti, no ai cani; no a dormire sul fianco sinistro, sì alle passeggiate al mare… È importante per il dopo di noi, perché alla morte dei genitori o delle persone che si sono prese cura dell’assistito non si crei un vuoto totale. Questo documento – immaginiamolo di una decina di pagine – viene redatto e custodito all’anagrafe del Comune di residenza e viene inserito in una Banca dati nazionale dei profili esistenziali di vita: deve essere vincolante per tutti e nessun operatore avrà la facoltà di prendere decisioni per conto di quella persona senza prima aver consultato il profilo. È un po’ come dire che “chi mi protegge è l’Italia”. Lo abbiamo fatto a Reggio Emilia, stiamo provando a farlo a Napoli con l’assessore Luca Trapanese e a Roma con l’assessora Barbara Funari.
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E poi? Che altro?
Il “patto di rifioritura” per le dipendenze gravi. Ricorda il caso di Pamela Mastropietro? Aveva 19 anni, era in una comunità ed è uscita ma non era in grado di gestirsi da sola… Bisognava che qualcuno – anche il custode della guardiola della comunità – avesse l’autorizzazione per dirle “no, tu non esci a tuo piacimento”. Non sto parlando di marchingegni tipo il TSO – peraltro breve – ma di uno strumento che si fondi più su un accordo che sui “muscoli”, ma che consenta di mettere in campo all’occorrenza, nei lunghi percorsi di cui stiamo parlando, delle “coazioni benigne” fondate su un patto. Il giudice, come leader di una équipe multidisciplinare, va dalla persona e propone un patto: d’ora in poi decidiamo insieme, valorizzando l’elemento dell’accordo, confezioniamo insieme questo percorso lungo. Se trasgredisci però noi abbiamo il potere di importi di fare quello che insieme abbiamo deciso. Si tratta di avere strumenti per far rispettare i doveri che ogni individuo ha verso se stesso o verso altri: un esempio è la persona ludopatica che tre giorni dopo aver preso lo stipendio l’ha già consumato tutto, con i bambini a casa senza scarpe o la moglie che non può andare dal dentista. Oppure la donna incinta che deve essere messa nelle condizioni di non assumere sostanze fino al parto. Invece di gestire la cosa con gli strumenti del diritto penale, lo facciamo con strumenti del diritto civile. I giudici lo fanno da almeno 10 anni, con le persone anoressiche: un tempo, dinanzi al rifiuto di mangiare ci si fermava, adesso si fanno decreti meno irresponsabili.
L’ultima proposta nuova per una revisione dell’amministratore di sostegno?
Va rafforzato l’empowerment negoziale. Il fatto che un individuo sia incapace di intendere e di volere non significa che i suoi propositi non contino. Banalmente ma non troppo, è il principio per cui un genitore non può imporre al figlio minorenne omosessuale di avere una ragazza, anche se lui è minorenne. Così una persona con sindrome di Down, che ha un amministratore di sostegno, può sposarsi. Anche se sullo sfondo c’è un’etichetta “negativa”, in realtà il diritto civile se tu sei in grado di gestirti, ti aiuta a realizzare i tuoi sogni: teoricamente non potresti farlo ma la legge stessa ti permette di farlo.
Foto di Nathan Anderson su Unsplash
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