Volontariato

L’altra Resistenza. La lotta quotidiana di chi non ha più nulla

Perché si finisce per strada? Oltre gli indicatori statistici, sono le storie degli uomini a interrogarci nel profondo

di Pietro Piro

Se questo è un uomo

C'è una domanda che mi pongo tutte le volte che mi trovo di fronte a una persona che "ha perso tutto" e che si trova a vivere per strada o in un dormitorio pubblico: come fa a sopravvivere, perché non si suicida o compie un gesto estremo di violenza? Dove trova la forza per continuare a sperare? A quali forze interiori attinge? A quale mistero della persona umana riesce ad accedere?

Come può sopportare uno stato di deprivazione quasi totale una persona che ha conosciuto il benessere, il calore della famiglia, la regolarità di un lavoro mensilmente retribuito, la vicinanza degli amici, la gioia delle vacanze al mare o in montagna? Come può adattarsi a vivere in una condizione di totale abbrutimento?

Ogni volta che incontro un "senza tetto" mi faccio raccontare la sua storia. Ascolto con la massima attenzione. Quasi con avidità, come se in quelle storie volessi trovare una "ragione comune", un "motivo dominante" che una volta acquisito mi permetta di non commettere gli stessi errori fatali. Egoisticamente cerco "la formula magica" che mi permetta di evitare gli errori commessi dagli altri.

Eppure, io questa "formula" non riesco proprio a trovarla. Si finisce "in strada" arrivando da mille percorsi differenti. Alcuni per sfuggire a un clima di violenza e di sopruso familiare, altri in seguito a separazioni o divorzi, altri ancora perché distrutti dai debiti, dalle dipendenze (droga, alcol, gioco d'azzardo) oppure, perché non hanno più nessun familiare in grado di aiutarli. In seguito a malattia, depressione, disturbi mentali oppure – e accade spesso – per un insieme di cause che si abbattono sulla persona e che somigliano sempre a una tragica narrazione di mitiche sventure.

Tutte queste storie sono accomunate da vissuti di sofferenza, emarginazione, perdita d'identità, rabbia.

Ogni volta che queste persone mi raccontano il loro passato non riesco a credere che possa essere vero che questa persona che mi parla adesso, trasandata, dall'odore inconfondibile (che trasmette un senso immediato di miseria), dagli occhi lucidi e malinconici, mi stia raccontando di quando con la sua famiglia andava a passare il tempo in note località sciistiche o di quando aveva acquistato l'ultimo modello di auto di una marca di prestigio. E' troppo distante per me l'immagine della persona che ho davanti con quello che mi racconta di sé.

Ogni volta che insieme ripercorriamo la storia vissuta, il passato sembra sempre lontanissimo, divorato da un presente fatto di notti al dormitorio, pranzi alle mense della Caritas, risse per farsi una doccia, tentativi di uscire dalla miseria e poi ancora cadute e ricadute. Ogni volta che incontro un "senza fissa dimora" mi chiedo se il monito di Primo Levi rivolto a noi che "viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, che troviamo tornando a sera il cibo caldo e visi amici" non possa essere esteso a ogni condizione umana costretta a giungere ai limiti della sopportazione, alla negazione dell'identità, alla disperazione dell'escluso. Ogni "barbone" c'interroga rispetto alla nostra capacità di "restare umani" e ci espone direttamente e senza mezzi termini di fronte alle dinamiche del presente che producono oltre allo svavillante luccicare della merce esposta sugli scaffali, anche un'umanità di scarto destinata ai rioni infernali della miseria.

«Se è per strada è colpa sua»

Se c'è un aspetto che mi colpisce del dialogo con queste persone è la loro consapevolezza del fatto che nel passato non avevano mai pensato di potersi trovare un giorno per strada e che ritenevano che chi finisse per strada lo facesse "per scelta". Vecchio pregiudizio questo, duro a morire nelle coscienze conformiste: "il barbone è in questa condizione perché vuole restare per strada, è una sua scelta, gli piace vivere così". A questa ipocrita versione dei fatti si associa anche questa ipotesi diffusa: "chi finisce per strada è comunque colpevole di qualche cosa e deve pagare per la sua colpa. Ma perché non va a lavorare come tutti?". Da quest'atteggiamento mentale deriva il disprezzo, la paura e la voglia "di non vedere". Da questo presupposto nasce l'indifferenza che è innanzitutto stracciare il volto dell'altro, non riconoscerlo come persona, come storia che interroga la mia storia. Ogni "senza tetto" ha una parte della sua storia personale che il più delle volte somiglia anche alla mia e allora, pur di negare che ognuno di noi è esposto al pericolo della miseria e della perdita di status, neghiamo l'esistenza dell'altro. In fondo, sappiamo tutti che quell'uomo per strada non è che un nostro possibile sé, un nostro fratello in difficoltà, eppure, siamo giunti a una disumanizzazione tale che pensiamo che ci sia sempre "un buon samaritano" disponibile che ci tolga dall'imbarazzo di doverci impegnare in prima persona. Ogni volta che deleghiamo nell'aiuto e nel soccorso ci priviamo di uno dei doni più belli: prestare attenzione alle sofferenze degli altri. Il "senza fissa dimora" non ha bisogno solo di aiuti materiali (che comunque per lui sono essenziali per sopravvivere) ma soprattutto di ristabilire legami di fiducia con gli altri che nel suo caso si sono logorati fino a spezzarsi. Ha bisogno di "essere messo in una situazione di attiva partecipazione" per essere sottratto al tedio delle infinite giornate senza uno scopo, senza una meta, senza un destino. Molti "senza tetto" vivono in una condizione di allucinato presente senza scopo e senza tempo dove le esigenze del corpo diventano infinite voragini dentro le quali scomparire come nel centro di una tempesta.

Traversare una strada per scappare di casa

lo fa solo un ragazzo, ma quest'uomo che gira

tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo

e non scappa di casa

Cesare Pavese

La Resistenza

Ora io lo dico senza nessuna paura quello che penso, anche al costo di far storcere il naso a qualche anima bella: la vera civiltà si misura dalla quantità di persone che finiscono per strada. Anche dieci "senza tetto" sono troppi. Non può e non deve esistere in una società come la nostra che produce lo spreco, che ogni giorno butta via una buona parte dei prodotti alimentari che produce, che ha a disposizione migliaia di doppie e triple case, che dispone di enormi ospedali, caserme, strutture, tutte in abbandono, che ci sia anche una sola persona che "finisce per strada". E non è accettabile che ognuno di noi consideri fatalmente inevitabile che ci sia una "povertà strutturale" al sistema e che una parte della popolazione sia costretta a vivere in povertà estrema perché tutto questo è "fisiologico". Io di questa "fisiologia" del potere non so proprio che farmene. Abbiamo accettato l'inaccettabile, rinunciato ai diritti sul lavoro, rinunciato alla partecipazione politica, al sentimento dell'amore compassionevole e ci siamo ridotti "al nudo interesse", al freddo "pagamento in contanti". Abbiamo costruito una società ingiusta, disuguale, che produce industrialmente merce scadente ed esclusione eccedente. Siamo una società assurda dove i giovani crescono nella menzogna e nell'ipocrisia. I più sensibili si trasformano in aguzzini o si "fasciano" con tutte le droghe che produciamo per neutralizzare le coscienze. Ogni senza tetto incarna tutte le contraddizioni del nostro tempo, egli è corpo vivo delle contraddizioni, delle negazioni, della necrofilia del nostro tempo. E' un soggetto politico su cui si esercitano tutte le violenze biopolitiche dell'Impero e del Sistema Tecnico.

La Resistenza non è finita. Continua ancora oggi nelle mense, nei dormitori, nelle case famiglia, nelle strutture di accoglienza per migranti, nei servizi sociali, nelle associazioni, negli ospedali e in tutti quei i cittadini che nel segreto forniscono vestiti e coperte, materassi e generi alimentari. E' una resistenza senza armi, esposta continuamente alla minaccia della sua stessa inutilità, all'incubo di essere del tutto inadeguata rispetto alla sofferenza prodotta dal "sistema". A questa Resistenza, oggi, occorre prestare il massimo ascolto e fare in modo che da queste esperienze di lotta per la dignità della persona possa nascere la classe dirigente di domani. Prima che sia notte……..

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