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L’altra faccia di Obama, indignato speciale

Ottimismo addio. Ecco tutta la rabbia dell'uomo della svolta nei confronti di chi gli lascia in eredità un Paese in una crisi senza precedenti

di Redazione

B arack Hussein Obama è inciampato nella formula del giuramento che doveva ripetere dopo il presidente della Corte Suprema, John Roberts ma, pochi minuti dopo, ha ritrovato la calma e la determinazione che lo avevano caratterizzato durante la campagna elettorale. Il suo discorso di insediamento, però, ha rivelato una faccia del nuovo presidente fin qui rimasta in ombra: Obama era arrabbiato. Il tono della voce, l’espressione cupa del viso, la posizione rigida del corpo lasciavano intravedere una rabbia che non era mai emersa nei 18 mesi di campagna elettorale. Al contrario, Obama si era mostrato sempre rassicurante, imperturbabile di fronte agli attacchi più velenosi degli avversari, “presidenziale” quando non era ancora neppure sicuro di essere il candidato del Partito democratico. Per tutto il 2008, Obama ha proposto agli americani una narrazione positiva, ottimista, che superasse le divisioni degli ultimi vent’anni e la polarizzazione del Paese.
Perché, dunque, nel giorno del trionfo il nuovo presidente degli Stati Uniti ha dato l’impressione di qualcuno con una profonda rabbia in corpo, una rabbia che gli ha fatto pronunciare un discorso “churchilliano”, in cui non prometteva nulla agli americani ma li invitava a rimboccarsi le maniche? La risposta sta nell’eredità che George W. Bush gli ha lasciato. Il peggior presidente nella storia degli Stati Uniti, l’uomo che ha iniziato il suo percorso nella frode elettorale e lo ha terminato nel saccheggio delle casse pubbliche a beneficio dei banchieri amici, esce dalla Casa Bianca lasciando dietro di sé un Paese allo stremo. Due guerre di cui non si vede una possibile soluzione, Afghanistan e Iraq. Una crisi economica che nei prossimi mesi quasi certamente si aggraverà, con milioni di disoccupati e decine di milioni di famiglie senza casa. Una macchina governativa paralizzata, con i governatori dei 50 Stati che cercano di tagliare le spese e far quadrare i bilanci proprio nel momento in cui il settore pubblico è l’unico che può sostenere l’economia. Oltre 45 milioni di americani senza assistenza sanitaria e altrettanti che non sanno come pagare le rate del mutuo, le bollette del riscaldamento, le tasse scolastiche dei figli. Ed è inutile citare l’astronomico deficit del bilancio federale, il persistente squilibrio nel commercio con l’estero, o la condizione dell’ambiente.
Obama ha reso l’omaggio di rito al suo predecessore ma, per la prima volta dall’inizio della sua avventura politica nazionale, ha fatto capire che è indignato per un Paese che negli ultimi anni è stato schiavo dei lobbisti, non ha assistito i suoi cittadini, ha tradito le promesse di giustizia e di eguaglianza, «come conseguenza dell’avidità e dell’irresponsabilità di alcuni ma anche del nostro fallimento collettivo nel fare scelte difficili».
Il suo appello agli americani perché si rimbocchino le maniche non era dunque rituale e, nel contesto, non sembrava rivolto all’uomo della strada ma piuttosto ai politici, ai banchieri, ai manager che nell’era Bush hanno trattato il Paese come fosse l’Eldorado dove arricchirsi in fretta, prima del diluvio. Ora il diluvio è arrivato e Obama ha lasciato intendere che gli appelli all’unità nazionale non gli impediscono di capire dove stanno le responsabilità.
Era arrabbiato, Obama, anche per un altro motivo: l’ampiezza del disastro morale e politico che eredita da Bush pone sulle sue spalle responsabilità che nessun uomo, nessun presidente, può realisticamente affrontare. I vignettisti hanno molto ironizzato, in queste settimane, sulla figura di un Obama-messia, a cui i due milioni di persone riunite nel gelo di Washington sostanzialmente chiedono di moltiplicare i pani e i pesci, camminare sulle acque e guarire gli ammalati. La realtà è che la stessa macchina governativa degli Stati Uniti, con i suoi “pesi e contrappesi” paralizzanti, impedisce non solo di fare miracoli ma spesso di amministrare in modo efficiente. Barack Hussein Obama lo sa perfettamente e anche questo è uno dei motivi per cui, il 20 gennaio a mezzogiorno e 5 minuti, appariva più arrabbiato che emozionato.

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