E’ stato pubblicato ieri, con buon risalto, il primo rapporto sull’altra economia. Una pubblicazione interessante soprattutto per il lavoro di “perimetrazione” dei soggetti d’impresa presenti in settori che, in quanto tali, definiscono il carattere “alternativo” della produzione economica: turismo sociale, software libero, finanza etica, agricoltura bio, ecc. Il tutto senza particolari riferimenti forme giuridiche, organizzative e di governance, anzi con un chiaro intento di andare oltre i confini tra pubblico e privato, lucrativo e non, ecc. Al di là degli approcci teorici e delle opzioni ideologiche che sono alla base di questa impostazione, quel che emerge è la necessità e al tempo stesso l’insufficienza dell’impresa sociale nel proporsi come istituzione dell’economia “altra”. Necessità perché potrebbe rappresentare un collante (non troppo stretto) tra esperienze che altrimenti faticano a rappresentarsi oltre a quello che producono, ad esempio per dire qualcosa di rilevante e specifico anche rispetto al “come” si fanno le cose. Insufficienza perché fino ad oggi sia la regolazione normativa e che le politiche promozionali hanno raggiunto risultati parziali a causa di un’impostazione eccessivamente settoriale. Forse è per questo che nel rapporto si parla molto poco di impresa sociale (nonostante le molte citazioni ad autori che hanno avuto un ruolo importante nella decretazione applicativa della legge). Eppure, come direbbe un gruppo musicale in voga nell’altra economia, “devo avere una casa per andare in giro per il mondo”.
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