Famiglia

L’altra America è possibile

Manifestazioni in tutto il mondo per dire no alla guerra. In Giappone, in tutta Europa e due grandi cortei negli Stati Uniti, a Washington con 200-300.000 e San Francisco con 150.000 persone

di Bernardo Parrella

SANTA FE, New Mexico (USA) – “In questo momento di guerra è assolutamente vitale offrire un’alternativa ai corporate media di questo paese, e l’insieme di radio e tv comunitarie è in grado di influenzare il dialogo internazionale. Dobbiamo preservare tali spazi pubblici ed anzi estenderli collettivamente in tutto il mondo.” Così ha aperto nel campus della University of New Mexico ad Albuquerque Amy Goodman, giornalista e animatrice di Democracy Now!, trasmissione-radio quotidiana irradiata da Pacifica Network e ripresa da numerose emittenti radiotelevisive, oltre che naturalmente sul web. L’intervento, sold-out da tempo e rilanciato via radio dalla locale KUNM, ha chiuso alla grande una giornata da molti definita “storica.” Non solo per le diverse migliaia di persone che hanno manifestato qui in New Mexico, stato povero e dimenticato ma che ha dato i natali alla bomba atomica nel Los Alamos National Laboratory. Storica soprattutto per la convinta partecipazione popolare, in alcuni casi perfino imponente, concretizzatasi ieri sull’intero territorio statunitense.

A cominciare dalla capitale, Washington DC, che nonostante il freddo pungente ha visto qualcosa come 200-300.000 persone urlare il NO alla guerra. Almeno altri 150.000 hanno sfilato nelle strade di San Francisco, più altre migliaia che dal Michigan allo Iowa alla Florida hanno dato vita ai rally organizzati da Act Now to Stop War and End Racism (ANSWER). Quest’ultimo ha garantito la partecipazione ai due eventi più importanti organizzando trasporti da oltre 200 località di 45 stati.
Tra la folla multicolore di Washington era presente il parlamentare britannico Jeremy Corbyn, che ha attraversato l’oceano per ribadire un concetto tanto chiaro quanto oscurato dai media USA: “In Gran Bretagna esiste un’enorme opposizione a questa guerra, la quale non ha supporto né riconoscimento a livello pubblico.”

Gli hanno fatto eco le parole del Reverendo Jesse Jackson che, tra i vari intervenuti alla conclusione del rally, ha insistito con la necessità del dialogo e della difesa dei diritti civili: “Scegliamo la ragione invece dei missili e le trattative anziché il confronto diretto…Oggi marciamo per combattere il militarismo, e il razzismo e il sessimo e l’antisemitismo e gli attacchi contro gli Arabi.” La giornata cadeva infatti nel week-end festivo per l’anniversario della nascita di Martin Luther King Jr., leader del movimento dei diritti civili che avrebbe compiuto 74 anni. “Dopo averne appeso il ritratto nella Casa Bianca, Bush deve aderire al messaggio del Dr. King,” ha ribadito il Reverendo Al Sharpton, prossimo candidato presidenziale democratico.

Giornata storica, quindi, perché per la prima volta dopo l’11 settembre un fiume di gente comune ha deciso di scendere in piazza, dando così vita a un fronte anti-guerra variegato e multicolore. Non più soltanto i “soliti pacifisti” di vecchio pelo ma anche e soprattutto ex-combattenti in Vietnam, entità di varie fedi e tendenze religiose, associazioni nonprofit e tantissimi cani sciolti. Decisi in qualche modo a rendere visibile al massimo la loro protesta, nella speranza che una simile ondata di attivismo possa far cambiare idea a Bush, o almeno farlo desistere dagli attuali propositi belligeranti. “La nostra voce deve contare,” questo il messaggio di fondo. Già, perché ancora una volta il rischio (la certezza?) è che l’amministrazione se ne freghi e proceda come meglio ritenga opportuno. Ciò nonostante gli elevati di numeri di presenze e l’annuncio di ulteriori iniziative di massa (ANSWER sta preparando una settimana di dimostrazioni a partire dal 13 febbraio). Tant’è vero che, alla tarda serata di sabato, il poll di CNN.com sugli effetti delle manifestazioni in tal senso riporta oltre un 70 per cento di opinioni negative.

Va aggiunto che stavolta i media mainstream hanno operato con maggiore correttezza di precedenti circostanze, pur continuando a minimizzare le cifre sui presenti. Fin dalla mattinata di sabato, si sono infatti susseguiti flash d’aggiornamento nei notiziari radio-TV e annessi siti web, da CNN ai network tipo NBC e ABC, mentre nei TG serali la notizia d’apertura è stata generalmente dedicata al rally più imponente, quello di Washington. Qua e là si è perfino dato spazio ad esponenti del fronte pacifista, ad esempio l’intervista di CNN.com a Ron Kovic, (http://www.cnn.com/2003/US/01/17/cnna.kovic/) veterano del Vietnam su una sedia a rotelle da 35 anni e autore di “Born on the Fourth of July”, oltre che tra gli intervenuti davanti alla folla di Washington. Ebbene, Kovic ha respinto per l’ennesima volta ogni accusa di anti-patriottismo, prevedendo anzi l’enorme aumento della partecipazione popolare: “Credo che il movimento diventerà molto più forte di quanto crediamo…. la gente comune sente di dover fare qualcosa e trova il coraggio di uscir fuori, di alzare la voce per dire che esiste un’alternativa, che ci sono altri modi di risolvere i problemi.”

Un messaggio che, manco a dirlo, è rimbalzato ancor più chiaro e forte via internet, a partire dai dispacci e dalle immagini tempestivamente diffuse dai vari siti locali di indymedia.org (Indymedia Washington e Indymedia San Francisco). E’ proprio un tale attivismo che ha fornito stimoli e strumenti necessari per la creazione della “prima grande collaborazione tra i media di base di questo paese,” come l’ha definita ancora Amy Goodman tra gli applausi scroscianti del pubblico. Una collaborazione a tutto campo che continuerà certamente a raffinarsi nei prossimi giorni e settimane. Finché c’è partecipazione c’è speranza.

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