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Lago Ciad: quando il campo profughi è anche un luogo da cui ripartire
A Kaya, una piana di sabbia vicino al Lago Ciad, si sono rifugiati oltre 4mila profughi fuggiti dalle violenze di Boko Haram. Qui Coopi, l’unica Ong italiana presente sul territorio, offre assistenza psicologia, protezione e ha sviluppato un progetto di educazione che, per moltissimi bambini, rappresenta anche la prima occasione di frequentare una scuola
Sono decine e decine i bambini di tutte le età riuniti sotto il grande tendone bianco nel centro del campo profughi di Kaya. A pochi metri da qui, una piana secchissima è l’unica traccia lasciata da quello che un tempo era parte del letto del Lago Ciad.
Il processo di desertificazione che ha travolto questo bacino d’acqua negli ultimi cinquant’anni ha ridotto il lago del 90% e oggi quella che prima era una zona lacustre è una distesa di sabbia, popolata solo da capanne di paglia e fango. Siamo a 15 minuti di jeep da Bol, uno dei principali, seppur isolatissimi, centri abitati nella Regione del Lago.
Se fino a pochi anni fa Bol contava appena 6mila abitanti, dal 2014 nel paese e nelle zone limitrofe si sono riversati 14mila sfollati interni, provenienti dalle isole e dalle zone al confine con Niger e Nigeria, in fuga dalle violenze di Boko Haram, il gruppo terroristico che negli ultimi quattro anni ha cercato di prendere il controllo di interi villaggi tra Ciad, Camerun, Niger e Nigeria.
Le capanne attribuiscono a Kaya l’aspetto di un contesto rurale ma stabile che fa quasi scordare di trovarsi nel mezzo di un campo profughi, eppure qui vivono circa 700 famiglie scappate dalle atrocità del gruppo terroristico, circa 4.200 persone.
Questo è uno degli oltre 100 campi presenti in Ciad, uno dei 9 in cui è direttamente impegnata Coopi, l’unica Ong italiana attiva sul lago, dove ha sviluppato progetti di sicurezza alimentare, assistenza psicologica ai sopravvissuti di Boko Haram e, proprio a Kaya, un’iniziativa di protezione ed educazione.
Il grande tendone bianco la mattina è usato come scuola e nel pomeriggio diventa un punto di ritrovo e ricreazione per i bambini del posto. Qui vengono seguiti da un’equipe di psicologi e operatori. Li osserviamo mentre sono intenti a colorare delle figure. «Sono scappati da attacchi e violenze indicibili. Alcuni hanno perso famigliari, amici», mi spiega Charlot Dabra Serfebe, psicologo, responsabile del programma, sottolineando che proprio il disegno e il gioco aiuta a rilevare eventuali traumi o situazioni di disagio. «Da quello che disegnano e dai colori che usano si possono capire molte cose. Se c’è la presenza di un trauma, se ci sono dei turbamenti. Per i bambini questi sono strumenti per esprimere il loro stato emotivo». Il primo passo per delinere le forme di sostegno più adatte: counselling, assistenza medica o psicologica. «Il disagio più comune è legato proprio allo stress post-traumatico dovuto alle violenze subite durante gli attacchi di Boko Haram», spiega Serfebe.
Abbiamo preso in carico 102 casi, nel 95% si trattava di bambini, la maggior parte affetti da disturbi post-traumatici .
Charlot Dabra Serfebe, psicologo, responsabile del programma
«Lo strumento più utilizzato in questi casi è il counselling, molto adatto ad un contesto emergenziale come questo, in cui le persone hanno bisogno di avere accesso ad un aiuto concreto per elaborare i traumi in tempi brevi», continua, specificando che l’assistenza fornita da Coopi non è solo offerta ai minori, ma a tutta la comunità. «Il progetto di protezione in realtà coinvolge tutti», perché, sottolinea, non può esserci un luogo davvero sicuro senza la sensibilizzazione e la mobilitazione dell’intera comunità. È per questo che l’Ong ha sostenuto la creazione di gruppi di protezione comunitaria nei diversi campi, sensibilizzando gli adulti sui temi più critici, dai disturbi legati allo stress post-traumatico, alla violenza di genere, fino ai matrimoni precoci.
«Si tratta di un comitato composto per metà da uomini e per metà da donne che ha il compito di vigilare sulla comunità e di rivolgersi a noi operatori nel caso in cui registrino episodi di violenze sui minori o sulle donne», spiega Serfebe. «Fino ad oggi abbiamo preso in carico 102 casi, nel 95% di questi si trattava di bambini, la maggior parte affetti appunto da disturbi post-traumatici e alcune vittime di matrimoni precoci».
È così che il grande tendone bianco si trasforma in un luogo in cui elaborare il lutto, la perdita degli affetti, il trauma delle violenze e, secondo Charlot Dabra Serfebe, questo tendone bianco nel mezzo del deserto è anche un luogo da cui ripartire, per costruire faticosamente una vita diversa da quella che si è lasciata alle spalle, nei villaggi perduti, conquistati da Boko Haram.
«Il pomeriggio facciamo attività psico-sociali, ma la mattina i bambini qui fanno lezione. Imparano a leggere, scrivere e contare». Qui viene insegnato il francese, la lingua ufficiale in Ciad che però quasi nessuno della popolazione adulta di Kaya conosce perché, mi spiegano, la maggior parte dei profughi proviene da luoghi rurali, remotissimi.
Il fatto di avere la scuola così vicina rappresenta un vantaggio inaspettato per molte famiglie. «Per ora abbiamo una capienza di sessanta bambini, ma continuiamo a ricevere richieste di inserimento. I genitori vogliono mandare a scuola i loro figli. Tanti vivevano in zone in cui una scuola non c’era. Per molte famiglie questa è la prima volta che hanno la possibilità di mandare a scuola i propri figli e capiscono che è una ricchezza», continua Serfebe, parlandomi delle condizioni di vita durissime a cui è costretto chiunque viva qui: le difficoltà di accesso all’acqua, le temperature impossibili che raggiungono i cinquanta gradi d’estate, la povertà più assoluta, per una popolazione che prima, nei villaggi di provenienza, era principalmente composta da allevatori e contadini e oggi non ha né bestie da allevare né campi da coltivare. E poi il peso di quello che si è perso e delle violenze subite. «Le condizioni di vita sono difficilissime», conclude Serfebe. «Eppure, inaspettatamente, questo è anche un luogo da cui ripartire. Ecco perché i progetti di assistenza ed educazione sono così importanti».
Foto: Ottavia Spaggiari
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