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L’agenzia cambia nome
Lo ha annunciato Gianni Letta, nella presentazione della Relazione 2007
È stata presentata stamattina a Palazzo Chigi la Relazione annuale 2007 sull’attività svolta dall’Agenzia per le Onlus. «Doveva essere un momento per guardare a quello che è stato fatto e invece ci siamo concentrati soprattutto sul futuro», ha commentato in chiusura il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Gianni Letta, dando così la chiave di lettura della giornata.
Il futuro? Denso come il passato…
In effetti, se è vero che il 2007, anno d’avvio della seconda consigliatura dell’Agenzia per le onlus, presieduta da Stefano Zamagni, è stato particolarmente denso di iniziative, il futuro si profila assai ricco di novità e di fronti d’intervento.
A cominciare dal cambio della denominazione nella più ampia «per il terzo settore». Lo aveva proposto il Consiglio in una delibera della fine del 2007: oggi l’onorevole Letta ha dato un parere positivo alla trasformazione, specificando che per la Presidenza del Consiglio è una decisione già assunta come pure per il ministero dell’Economia. Non manca che l’ok del Ministero del Lavoro salute e politiche sociali. È quindi assai probabile che già entro l’anno l’Agenzia potrebbe chiamarsi per il Terzo settore.
Una questione che ovviamente non è nominalistica, ma che si configura come un primo passo verso la ridefinizione del suo ruolo e una precisazione dei suoi compiti.
Su questo fondamentale aspetto, il sottosegretario Letta ha convenuto con le riflessioni contenute nella Relazione, ribadite stamani dal presidente Zamagni. È fondamentale, ad esempio, che l’Agenzia possa esprimere pareri vincolanti in particolare sulle leggi che riguardano il non profit. Egualmente, sarebbe assai utile che ad essa fosse demandato il compito di tenere l’Anagrafe delle onlus (anche per trovare una soluzione alla moltiplicazione dei troppi registri, nazionali e regionali, spesso redatti in maniera disomogenea), che potesse avere poteri censitori sul terzo settore (al di là del censimento già previsto, in accordo con l’Istat, per il 2009). Sarebbe necessario, in sostanza, trasformare una Agenzia, che ha poteri consultivi non vincolanti, in una vera e propria Authority in grado di dare un indirizzo e una regolamentazione chiara al mondo del non profit.
«Uscire dal Limbo, trovare una identità»
È stata questa la sollecitazione del presidente Zamagni perché con maggiori e meglio definiti poteri (fra cui quello di vigilanza), l’Agenzia svolgerebbe a pieno e con maggior efficacia il suo compito. Un obiettivo condiviso dall’onorevole Letta che ha dato mandato alla dottoressa Agosti del Dipartimento per il coordinamento amministrativo (che fa capo alla Presidenza del Consiglio) di elaborare i testi per i necessari aggiornamenti normativi con lo scopo di ampliare competenze e poteri dell’Agenzia. Letta ha anche annunciato che la Presidenza del Consiglio intende porre rimedio alla riduzione della dotazione economica dell’Agenzia (la Finanziaria per il 2007 e per il 2008 ha ridotto del 40% lo stanziamento), stanziando fondi supplementari.
Pubblichiamo di seguito la Presentazione del professor Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia per le Onlus, alla Relazione Annuale sull’attività svolta dall’Agenzia per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (1° gennaio 2007– 31 dicembre 2007)
Il 2007 ha visto svolgersi il primo anno di attività della nuova consigliatura dell’Agenzia per le Onlus, insediatasi il 15 gennaio 2007. Come il lettore potrà constatare direttamente leggendo anche il solo executive summary – prima novità editoriale di questa relazione annuale – non pochi sono stati i nuovi fronti di attività lungo i quali l’Agenzia si è mossa. Non mette conto che qui proceda ad illustrarli o anche solo ad elencarli. Preferisco piuttosto occupare il breve spazio a mia disposizione per evidenziare quelle questioni dalle quali hanno tratto origine le scelte strategiche che hanno caratterizzato l’azione dell’Agenzia durante l’anno passato. Mi limito ad indicarne tre.
La prima di tali questioni è quella che chiama in causa il grosso tema della qualità dei beni e servizi prodotti e erogati dai soggetti del terzo settore. Se è vero – come ritengo – che una organizzazione non profit (Onp) non possa accontentarsi di “dare conto” di quel che fa, ma deve spingersi fino a “tenere conto” dei bisogni che, in vario modo, salgono dalla società civile, è evidente che il discorso della valutazione non può essere confinato all’accertamento dell’efficienza che, come noto, è la proprietà della relazione tra input impiegati e output ottenuti. In altri termini, se le Onp vogliono scongiurare il rischio della autoreferenzialità, non possono non sottoporre il proprio operato al test dell’efficacia, che serve a misurare gli esiti positivi degli output prodotti dall’organizzazione rispetto ai bisogni (individuali o collettivi) che definiscono la sua missione specifica. Ora, mentre per misurare l’efficienza basta il cosiddetto controllo di gestione (che si avvale di strumenti quali gli standard di processo, la contabilizzazione dei costi, diretti e indiretti, vari indicatori di performance), la misurazione dell’efficacia parte dal riconoscimento che una Onp è sempre, e prima di tutto, una organizzazione a movente ideale (Omi).
Concretamente, questo implica che la valutazione di una Omi non può prescindere dalla sua capacità di innovare i servizi; di democratizzare il welfare; di diffondere la cultura della gratuità; di favorire l’accumulazione del capitale sociale; di produrre beni relazionali. Una Onp che risultasse pienamente efficiente, ma scarsamente efficace, non potrebbe durare a lungo, dato che le verrebbe a mancare la legittimazione sociale. Non solo, ma una ossessiva insistenza sulla sola efficienza potrebbe determinare un effetto di spiazzamento: l’organizzazione, pur di ottenere le certificazioni di qualità secondo canoni che – come le Iso 9000 – hanno carattere prettamente procedurale, potrebbe distogliere le proprie energie dall’erogazione dei servizi per indirizzarli verso il rispetto di quei canoni. È per questa fondamentale ragione che l’Agenzia ha dedicato e va dedicando attenzioni crescenti per arrivare ad enucleare linee-guida circa la redazione sia del bilancio d’esercizio sia del bilancio di missione per le diverse tipologie di Onp.
La seconda questione su cui desidero richiamare l’attenzione è quella del rapporto “difficile” tra terzo settore e pubblica amministrazione (PA). Perché difficile? La ragione è presto detta. Come si sa, la PA nel suo insieme è il principale committente o acquirente dei servizi prodotti dalle organizzazioni di terzo settore. Enorme potrebbe dunque essere il ruolo della PA nel fare in modo che le Onp riuscissero ad esaltare la loro identità propria, che – come si diceva – è l’identità di una Omi. Eppure, quanto viene richiesto dalla gran parte dei bandi di appalto degli enti pubblici dimostra che ancora non si è compreso che ciò che si deve chiedere ad una Onp è qualcosa di diverso da quanto si deve chiedere ad un soggetto pubblico o privato.
A tale riguardo, v’è da annotare che la recente sentenza della Corte di giustizia europea, sezione III, del 29 novembre 2007 renderà ancora più acuta la situazione. Intervenendo nella causa C-119/06 avente per oggetto un ricorso nei confronti della regione Toscana che aveva concluso un accordo quadro con diverse associazioni di volontariato per l’affidamento dei servizi di trasporto sanitario, la Corte scrive al paragrafo 39: «Senza negare l’importanza sociale delle attività di volontariato, si deve necessariamente constatare che… l’assenza dei fini di lucro non esclude che tali associazioni esercitino un’attività economica e costituiscano imprese ai sensi delle disposizioni del Trattato relativo alla concorrenza». Al paragrafo 40 si legge poi: «La circostanza che, a seguito del fatto che i loro collaboratori agiscono a titolo volontario, tali associazioni possano presentare offerte a prezzi notevolmente inferiori a quelli di altri offerenti, non impedisce loro di partecipare alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici previste dalla direttiva 92/50». Come si può intendere, ci troviamo qui di fronte ad una incomprensione radicale del senso dell’agire volontario, con l’intento, certo non dichiarato, ma chiaro, di relegare la gratuità nella sfera del privato. Secondo una tale visione delle cose, la sfera pubblica dovrebbe ospitare solamente ciò che si richiama al contratto o al principio di gerarchia. Il protocollo d’intesa che l’Agenzia ha siglato con l’Istat per realizzare una proficua collaborazione in vista del censimento del non profit del 2009, va letto su tale sfondo.
La terza questione, infine, chiama in causa il tema del cosiddetto nuovo welfare. Nuovo in quale senso? Per rispondere, conviene partire dalla considerazione che, nelle nostre odierne società, la povertà non è conseguenza di una scarsità di risorse, ma di una scarsità di istituzioni adeguate allo scopo. Che le istituzioni del vecchio welfare si dimostrino, oggi, incapaci di affrontare le nuove povertà è cosa risaputa. Del pari esse sono impotenti nei confronti delle disuguaglianze sociali, in continuo aumento. Le persone collocate ai livelli bassi della scala sociale hanno oggi maggiori difficoltà di un tempo a portarsi su livelli più alti. È questo un segno eloquente della presenza di varie “trappole di povertà”: chi vi cade, difficilmente riesce ad uscirne. Accade così che la persona inefficiente è tagliata fuori dalla cittadinanza, perché nessuno ne riconosce la proporzionalità di risorse. Quanto a dire che la persona meno efficiente della media non ha titolo per partecipare al processo produttivo, perché il lavoro decente è solo per gli efficienti. Per gli altri vi è il lavoro “indecente” – nel senso di A. Margalit – oppure la pubblica compassione. Come procedere allora nel disegno di un nuovo welfare? Il primo passo è quello di spostare il fuoco dell’attenzione dai beni e servizi che si intende porre a disposizione del portatore di bisogni alla effettiva capacità di questi di funzionare grazie alla loro fruizione. Ciò implica che se le prestazioni sociali, per quanto di qualità sotto il profilo tecnico, non accrescono le possibilità di funzionamento per coloro ai quali esse sono rivolte, si rivelano inefficaci, pur se efficienti. Nel concreto, questo comporta che deve essere la domanda ad orientare i servizi e non l’offerta dei servizi che obbliga la domanda ad adattarsi ad essi, come ancor oggi continua ad essere. Quando si arriva a questo grado di consapevolezza si è anche prossimi a comprendere perché il nuovo welfare non può non porre al centro la soggettività economica e sociale delle Onp.
Ma c’è un secondo passo da compiere per il nuovo welfare. Si tratta di questo. Il fondamento teorico che, sin dagli inizi, ha legittimato i vari sistemi di welfare è stato il contrattualismo. Così come è il contratto privato a fondare le transazioni di mercato tra agenti economici, allo stesso modo è il contratto sociale a sorreggere la “società ben ordinata” di cui parla J. Rawls. Cosa troviamo al fondo dell’idea di contratto, privato o sociale che sia? La nozione di negoziabilità: i cittadini razionali si rendono conto che per perseguire nel migliore dei modi i propri interessi, trovano conveniente sottoscrivere un contratto che fissi obblighi e pretese per ciascuno. È dunque la logica del mutuo vantaggio a determinare il vincolo sociale. Ma cosa ne è di coloro che, non essendo indipendenti né razionali, non sono in grado di negoziare e pertanto non sono in grado di sottoscrivere il contratto sociale? Cosa ne è cioè degli outliers, degli esclusi? Come onestamente ammette David Gauthier, principale espressione del contrattualismo rawlsiano, «gli esclusi rappresentano un problema che comprensibilmente nessuno vuole affrontare… perché queste persone non sono parte delle relazioni morali cui la teoria contrattualista dà origine» (Morals by agreement, Oxford, OUP, 1986, p.18).
Ecco perché ci vuole un principio più originario e più robusto di quello di negoziabilità se si vuole fondare il nuovo welfare. Quale esso potrebbe essere? La risposta che il mondo del Terzo settore dà è il principio di vulnerabilità. È dal riconoscimento della vulnerabilità come cifra della condizione umana che discende l’accettazione della dipendenza reciproca e dunque nella “simmetria dei bisogni”. Il prendersi cura dell’altro diviene allora espressione del bisogno di dare cura. Ecco perché il legame sociale che discende dall’accoglimento del principio di vulnerabilità è assai più robusto di quello che nasce dal contratto. È in ciò il guadagno specifico che le organizzazioni della società civile danno alla progettazione del nuovo welfare. L’Agenzia si è fatta interprete di tale peculiarità del terzo settore nelle sedi in cui è intervenuta e negli atti che ha prodotto. Di una nota dolente non posso non fare qui rapido cenno, in chiusura. A fronte di un aumento ragguardevole del volume delle attività svolte e dei positivi risultati conseguiti – i capitoli di questa Relazione ne sono chiara e fedele conferma – l’Agenzia si è vista assegnare nelle Leggi Finanziarie sia per il 2007 sia per il 2008 una dotazione ordinaria di oltre il 40% inferiore a quella che essa si era vista attribuire nei cinque anni della prima consigliatura. Non v’è chi non veda come un tale stato di cose rischia di mettere a repentaglio l’operatività ordinaria, cioè istituzionale, dell’Agenzia. Invero, delle due l’una: o si hanno ragioni per ritenere che quello di cui qui si parla è un ente poco utile per il paese e allora è opportuno decretarne la cessazione; oppure si giudica positivo l’operato dell’ente, tanto da pensare di trasformarlo in vera e propria Autorità garante per l’intero Terzo settore, e allora bisogna dotarlo delle risorse sufficienti per funzionare. Va da sé che chi scrive non solo è convinto, ma è in grado di dimostrare, che il secondo è il corno corretto del dilemma.
Mi sia concessa una breve digressione, che trae spunto da quanto sopra. L’Italia, che è il paese che ha dato i natali al grande illuminista napoletano, Giacinto Dragonetti, stenta a trovare i modi per tradurre in atto il suo messaggio centrale. Scriveva Dragonetti nel suo celebre Delle virtù e dei premi, pubblicato nel 1765, l’anno successivo a quello in cui a Milano Cesare Beccaria dava alle stampe il suo fondamentale Dei delitti e delle pene: «Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù». Sappiamo che una società, per diventare veramente civile, ha certamente bisogno di combattere “delitti” e di comminare “giuste pene”, ma ha anche necessità di premiare chi pratica le virtù civili, così da facilitare la loro diffusione e imitazione. Altrimenti i governanti – concludeva Dragonetti – «mancando alle virtù la dovuta ricompensa, farebbero il bene dell’infingardo e la distruzione del virtuoso». A tutte le persone dell’Agenzia che, con intelligenza e passione, si sono adoperate per accrescere la produttività del lavoro, pur in presenza di uno stringente vincolo di bilancio, va il mio sincero apprezzamento e ringraziamento, che si unisce a quello dell’intero Consiglio.
Mi piace chiudere con un’immagine che prendo da Benjamin Benson. La catena e la corda simboleggiano due diversi modelli di sviluppo, tanto di una società quando di una organizzazione. Secondo il primo modello, lo sviluppo si realizza aggiungendo anello ad anello, così che più è lunga la catena, più robusto si ritiene che sia lo sviluppo. Ma la forza di una catena è quella del suo anello più debole, tanto che la rottura anche di uno solo degli anelli, ne annulla la funzione. Nel modello della corda, invece, tanti fili si intrecciano tra loro, così che, anche se dovesse accadere che qualche filo si strappa, la corda si indebolirà un poco, ma continuerà a tenere. Il mio auspicio è che il Terzo settore non si lasci abbacinare dal modello della catena, ma cerchi piuttosto di allungare e di irrobustire le sue “corde”.
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