Non profit

L’Africa adesso fa di testa sua

30 miliardi di dollari. Serviranno per aprire 24 centri di analisi indipendente in 11 Paesi. L'economista camerunese Ayuk: «Si apre una nuova era»

di Emanuela Citterio

Trenta miliardi di dollari per trovare soluzioni “made in Africa”. È la nuova frontiera dell’aiuto internazionale secondo due fondazioni, la Bill & Melinda Gates e la Hewlett, e un centro di ricerca canadese, l’Idrc – International development research centre. I tre enti non profit si sono uniti per finanziare 24 think tank in 11 Paesi africani: Benin, Burkina Faso, Etiopia, Ghana, Kenya, Mali, Nigeria, Rwanda, Senegal, Tanzania e Uganda. Saranno centri di ricerca piccoli, indipendenti, finanziati su un arco di tempo di dieci anni, con una mission: analizzare questioni socio-economiche che riguardano i propri Paesi e trovare soluzioni adatte alla realtà locale. Elyas Ayuk, economista camerunese, è l’esperto dell’Idrc che da Dakar, in Senegal, sta seguendo l’avvio della «Think tanks initiative».
Vita: Qual è l’obiettivo?
Elyas Ayuk: L’iniziativa punta a costituire think tank indipendenti nei Paesi del Sud del mondo. Abbiamo cominiciato con l’Africa. L’idea è fornire un supporto sul lungo periodo, non legato a un progetto specifico, in modo che questi istituti abbiamo la libertà di lavorare nell’area che ritengono prioritaria.
Vita: Qual è la differenza rispetto ai tradizionali programmi di aiuto allo sviluppo?
Ayuk: Sarà l’istituzione locale, il think tank, a decidere su quali progetti concentrare le risorse. È un modo per rafforzare le istituzioni in modo che possano affrontare problemi locali usando risorse locali.
Vita: Quali saranno gli ambiti di ricerca?
Ayuk: Quelli economico-sociali legati alla crescita economica, alla riduzione della povertà, allo sviluppo nel suo complesso. Il supporto che verrà dato a questi centri permetterà loro di reclutare personale, per esempio antropologi, sociologi, economisti, geografi per lavorare su temi specifici. Questo è un aspetto chiave. Il problema in Africa non è la mancanza di risorse umane, ma il fatto che molte persone preparate non hanno i mezzi per fare il proprio lavoro. Fornire questi fondi può aiutare a creare un ambiente favorevole ai ricercatori, anche giovani, in modo che possano dare il loro contributo per risolvere i problemi reali.
Vita: Un modo per frenare la fuga di cervelli?
Ayuk: Si può leggere anche così, anche se mi sembra evidente che gli esseri umani si spostano da sempre e continueranno a farlo, che piaccia o no.
Vita: Qual è il budget per ogni centro?
Ayuk: Varia da 450mila a 2,2 milioni di dollari per i primi quattro anni. L’entità dipende dalla capacità di assorbimento. Se dai 5 milioni dollari a un istituto che non ha capacità di assorbirli, alla fine il denaro sarà ancora lì, e cresce il rischio che non venga usato bene.
Vita: Il libro dell’economista zambiana Dambisa Moyo, che dice che l’aiuto allo sviluppo ha fallito, sta facendo discutere. È d’accordo con la sua tesi?
Ayuk: Credo che Moyo abbia sollevato una questione: bisogna rivedere il modello dell’aiuto allo sviluppo. Il punto è cosa ne è stato fatto delle risorse ricevute in questi anni. È evidente che in diversi Paesi l’aiuto è stato usato male, non è andato alle persone che ne avevano bisogno. Nel caso dell’Africa bisogna ripensare e decidere da noi stessi di quale tipo di supporto abbiamo bisogno. Credo che in futuro si svilupperà di più l’aiuto Sud-Sud. Questo non vuol dire che i Paesi o le ong del Nord del mondo saranno tagliati fuori ma abbiamo bisogno di vedere le istituzioni e i governi locali assumere la leadership e farsi carico dei propri problemi attraverso un buon governo.


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