Mondo
L’Afghanistan nell’oblio della politica, ma sul campo le ong restano
La disoccupazione ha raggiunto il 98%. Nel 2022 il 90% della popolazione sarà sotto la soglia di povertà. I talebani provano a cancellare l’immagine della donna e più di 18,4 milioni di persone, oltre la metà popolazione, necessitano assistenza umanitaria
di Anna Spena
Dopo la presa di Kabul e la proclamazione dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, lo scorso agosto, l’opinione pubblica internazionale ha riaperto, con 20 anni di ritardo, gli occhi sull’Afghanistan. Per poi richiuderli velocemente. Eppure il Paese sta attraverso la una delle peggiori crisi sociali, umanitarie, ed economiche esistenti. Già prima dell’avanzata dei talebani «l’Afghanistan», come più volte ha denunciato da Save The Children, «era il secondo Paese del mondo con il più alto numero di persone colpite dall'emergenza fame: sono 5 i milioni di bambini a un passo dalla carestia e 14 milioni tra bambine e bambini vittime di insicurezza alimentare. Da agosto il numero di coloro che non ha cibo a sufficienza è aumentato di 3,3 milioni, il rischio di ammalarsi di malnutrizione acuta è elevato». L’ong è presente nel Paese dal 1979 e distribuisce beni di prima necessità, ripari temporanei, coperte, cure mediche e servizi sanitari anche nelle aree più remote del Paese attraverso un servizio di cliniche mobili.
"Chi può, lascia il Paese”, come scrive l’ispi. “Ogni giorno 5mila afghani attraversano il confine con l’Iran, per unirsi agli oltre 300mila già fuggiti da fine agosto. Ma Teheran, che ospita già 4 milioni di afghani, soffre di una crisi economica senza fine, e così prova a respingere chi pensa di restare nel Paese”. Ma quella dell’Afghanistan è anche e soprattutto la storia di chi rimane. La popolazione è allo stremo e senza la presenza delle organizzazioni umanitarie il Paese non potrebbe più andare avanti. Come Emergency che lavora in Afghanistan dal 1999 con due Centri chirurgici per vittime di guerra nelle località di Kabul e Lashkar-gah e un Centro chirurgico e pediatrico, un Centro di maternità ad Anabah, nella Valle del Panshir. O ancora Medici Senza Frontiere, Julie Faucon, responsabile infermieri Msf, non usa mezzi termini per descrivere il sovraffollamento del loro centro a Herat: «ricoveriamo oltre 60 bambini malnutriti a settimana e il numero dei pazienti è il doppio rispetto ai letti disponibili».
Il Paese si trova in una fase critica della gestione della macchina burocratica: «Nel nuovo governo», racconta Matteo Brunelli, vice direttore regione Afghanistan per l’organizzazione umanitaria Intersos, «c’è una frammentazione interna della leadership che si ripercuote sulla gestione pubblica. Ed è un governo comunque ancora non pienamente riconosciuto dalla comunità internazionale, questo ne limita l’operatività anche verso l’esterno». Lo scenario è drammatico: «L’inflazione è schizzata alle stelle, la valuta afghana ha perso 10 punti dallo scorso agosto fino ad ottobre ed altri dieci punti solo nelle ultime settimane. In tutto il Paese c’è uno scarsissimo accesso alla liquidità mentre il costo della vita è altissimo. Nei prossimi mesi aumenteranno ancora di più malattie e malnutrizione».
Intersos è presente in Afghanistan dal 2001, lavora in modo nelle regioni del Sud. I progetti non hanno mai smesso di essere operativi, garantendo il supporto a diversi centri di salute primaria presenti nei distretti di Spin Boldak, Maywand, Shawalikot, Shahjoy, all’ospedale di Qalat e al centro di salute di Kharwaryan nella provincia di Zabul. Dopo il crollo del precedente governo e il successivo congelamento dei finanziamenti allo sviluppo, decine di strutture sanitarie sono state chiuse e sempre più persone si rivolgono ai centri di salute dell’ong.
«La risposta umanitaria va avanti», dice Brunelli. «Ma già prima dello scorso agosto le persone che vivono nelle zone più remote del Paese non avevano accesso ai servizi di base. Zone sottosviluppate e già sotto il controllo talebano. A questa situazione già difficile si è aggiunta la crisi della scorsa estate, che ha aumentato la povertà e i flussi migratori che, tutto sommato, sono ancora limitati». Nelle aree dove Intersos era già presente sono aumentati gli accessi e le richieste d’aiuto. «Non essendoci più una linea di conflitto», spiega Brunelli, «abbiamo maggiore libertà di movimento, ma questo non significa maggiore sicurezza che anzi continua a deteriorarsi viste le minacce dell’Isis-K. Negli ultimi mesi abbiamo sviluppato una risposta umanitaria anche nelle zone periferiche di Kabul dove si è registrato un afflusso della popolazione all’inizio del conflitto che poi non è tornata indietro».
Nella Capitale, Kabul, attualmente la percentuale di persone in condizioni alimentari critiche è del 45%, a Kandahar del 40% e a Zabul del 50%. Le proiezioni per il periodo novembre 2021-marzo 2022 vedono un ulteriore aumento della situazione d’emergenza che toccherà 22,8 milioni di persone, il 55% del totale della popolazione. «Stiamo riattivando nelle zone di Kabul una serie di centri di salute primaria. Lavoriamo con un approccio ibrido: supportiamo i centri statici e poi ci muoviamo e lavoriamo tramite team mobili. Il sistema sanitario nel Paese oggi è gestito da organizzazioni umanitarie e di sviluppo. Le ong sono le uniche in grado di convogliare fondi, risorse finanziare e mediche. Tutta la macchina statale è in stallo».
E la situazione continua a degenerare per le donne: oltre i 72 chilometri dovranno essere accompagnate da un uomo della famiglia e gli autisti non potranno accettare sui loro veicoli le donne che non indossano il velo islamico. «Non si capisce», spiega Luca Lo Presti, presidente della Fondazione Pangea Onlus, che lavora nel Paese dal 2003 dove ha attivato, tra gli altri, un circuito di microcredito integrato con servizi di tipo educativo e sociale, rivolto a donne, «per quale strano motivo la politica e l’opinione pubblica vogliono descrivere i talebani come “moderati”. Al mondo piace ripetere questo aggettivo, ma solo perché fa comodo: nessuno vuole un’azione forte contro questo governo la cui nascita è stata concordata dai trattati di Doha. Ma la verità è che è un governo criminale». Oggi la fondazione distribuisce, dalle montagne del nord fino al deserto del sud, pacchi alimentari e prodotti di prima necessità a 70mila persone ogni mese.
«I riflettori si sono spenti sull’Afghanistan, sulla condizione della popolazione e sulle donne», dice Lo Presti. «Altro “editto” emanato riguarda infatti il divieto di utilizzare immagini femminili. L’obiettivo è cancellare l’immagine della donna». Pangea in Afghanistan gestisce dieci Save house dove nasconde donne sole con i loro figli: «tutte ricercate dal governo perché attiviste, giornaliste, avvocate. Il divieto di percorrere da sole oltre 72 km mette a rischio la loro possibilità di fuga». E anche se in 8 province è stato concesso alle ragazze di andare a scuola: «nella realtà questo non avviene. Un conto sono le leggi emanate da un governo centrale, che ad oggi non ha controllo neanche sulla capitale, un altro è fronteggiarsi ogni giorno con bande armate dei talebani che nelle diverse province fanno il bello e il cattivo tempo. All’esterno si vuole dare una parvenza di legalità e normalità, ma quello che accade nel Paese è drammatico».
Un Paese dove il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 98%, le banche sono chiuse e dove si stima che nel 2022 il tasso di povertà sarà al 90%. «Ma questa non è solo colpa dei talebani», dice il presidente di Pangea. «In 20 anni l’Occidente non ha costruito la pace, ma ha fatto guerre di presidio».
Anche ActionAid sta fornendo supporto di emergenza alle comunità di quattro province dell'Afghanistan, tra cui Herat, Kabul, Ghor e Balkh. Le squadre di emergenza stanno distribuendo denaro e kit igienici per donne e ragazze a circa mille famiglie. Nelle prossime settimane l’obiettivo è quello di raggiungere più di 10mila famiglie con supporto alimentare e articoli essenziali per sopravvivere al rigido inverno afgano, incluse coperte e attrezzature per il riscaldamento. Tra loro Sara, 57 anni, che vive nella provincia di Ghor, dove la maggior parte della popolazione dipende dall'agricoltura per il proprio sostentamento. Quest'anno la sua famiglia ha perso il 90% del raccolto di grano a causa della siccità ed è stata costretta a vendere il bestiame per sopravvivere. Hanno lasciato il loro villaggio natale e si sono recati nella capitale, la città di Firozkoh, in cerca di lavoro. «La mia famiglia è fuggita dalla nostra città natale perché non avevamo più abbastanza cibo per sopravvivere lì», racconta. «Avevo paura della crisi umanitaria che avrebbe potuto portare alla morte dei membri della mia famiglia. Viviamo in una situazione molto brutta perché non c'è nessun mezzo di reddito, non c'è lavoro giornaliero in città. Una o due volte alla settimana mio figlio potrebbe trovare lavoro per guadagnare 600-800 AFN (5.11-6,81 euro). Compriamo solo pane, ma durante questo freddo inverno abbiamo bisogno di vestiti caldi, coperte e carburante per proteggerci dal freddo».
«Con l'avvicinarsi dell'inverno, metà della popolazione dell'Afghanistan sta affrontando una crisi alimentare e di malnutrizione sempre più profonda. Le donne e le ragazze sono le più a rischio perché il recente conflitto, la siccità e la crescente povertà stanno costringendo le famiglie a fuggire verso i centri urbani in cerca di lavoro e sicurezza», spiega Sudipta Kumar, direttore nazionale di ActionAid Afghanistan, che ha sede a Kabul. «Le famiglie sfollate ci dicono che i loro bisogni più urgenti sono il cibo e il combustibile per riscaldare le loro case, dato che devono affrontare temperature sempre più basse, livelli di disoccupazione vertiginosi e un'inflazione elevata che rende gli articoli essenziali inaccessibili».
L'organizzaizone umaniatria WeWorld è tornata operativa nel Paese: «In un momento così delicato», spiega Dina Taddia, consigliera delegata dell’organizzazione, «dopo che la situazione è rapidamente precipitata e i diritti delle persone negati con sempre più forza, abbiamo deciso di riprendere le nostre attività in Afghanistan per garantire sostegno alle comunità locali. Il nostro intervento supporta le donne sole capofamiglia e i loro figli e figlie che vivono nella provincia di Herat. In questa provincia, infatti, la dimensione media di un nucleo familiare è di 10 persone, sono presenti oltre 10mila donne capofamiglia e più di 50mila bambini necessitano di assistenza umanitaria. Il conflitto ventennale ha creato milioni di vedove di guerra e l’emergenza Covid-19, in un Paese dove solo il 2% della popolazione è vaccinata, ha esponenzialmente aumentato il numero di donne sole. Molte di loro sono le più povere tra i poveri, analfabete, costrette a mendicare per sopravvivere rischiando ogni giorno la loro vita da quando i talebani hanno vietato alle donne di uscire di casa senza un tutore maschio. Pensiamo a tutte quelle donne che non hanno figli maschi e vivono nel costante rischio di non riuscire nemmeno a elemosinare qualcosa per sostenere la propria famiglia. Questa vulnerabilità è ulteriormente esasperata dalle dure condizioni dell’inverno in Afghanistan, dove le temperature possono raggiungere i -12 gradi. Le donne sole capofamiglia e le loro bambine e bambini rischiano di non superare l’inverno. È per questo che è necessario intervenire nel Paese».
Credit Foto apertura: Alessio Romenzi per Intersos
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