Mondo
L’Afghanistan ci ha insegnato, definitivamente, che la guerra non funziona
Il commento di padre Giulio Albanese, missionario comboniano e giornalista all'indomani dell'avvenuta ritirata militare occidentale. «Dopo 20 anni di lotta contro i terroristi, questo è il risultato. Aveva ragione Gino Strada»
«Uno straordinario successo»: così il presidente Joe Biden ha definito l'operazione di evacuazione da Kabul parlando di «una missione di compassione». E ha poi aggiunto: «La scadenza del 31 agosto per il ritiro dall'Afghanistan non era una data arbitraria ma una data per salvare vite americane», precisando che «era ora di finire questa guerra. C'è un mondo nuovo e dobbiamo difendere gli Usa da nuove minacce. La nostra strategia deve cambiare. Non avevamo bisogno di continuare una guerra di terra».
Personalmente, ciò che ho trovato sorprendente è stato questo passaggio del suo ragionamento: «Il mondo sta cambiando; dobbiamo affrontare le sfide di questo secolo e la competizione con la Cina o la Russia, continuando a combattere il terrorismo». Ora io mi domando: se dopo 20 anni di guerra contro i terroristi, questo è il risultato, aveva proprio ragione Gino Strada nel dire: «C’è un dato inoppugnabile. La guerra è uno strumento, ma non funziona; semplicemente non funziona».
Per capire meglio lo stato dell’arte, proviamo ad andare indietro con la moviola della Storia. Come quelli della mia età ricorderanno, nonostante la mancanza di coesione all’interno dei mujaheddin, il 17 aprile 1992 questi signori proclamarono la nascita dello Stato Islamico dell’Afghanistan. E a seguito delle forti tensioni tra i loro comandanti vennero alla ribalta i talebani, una milizia composta da giovani afghani di origine pashtun provenienti dalle scuole islamiche del Pakistan e da mujaheddin delusi dai loro comandanti. Minoranza fino a quel momento conosciuta per il fondamentalismo religioso e l’arretratezza dei costumi.
Scrive sul Manifesto Enrico Calamai, diplomatico italiano nominato ambasciatore a Kabul nel 1987: «Valga a titolo di esempio quanto segue: usi a camminare scalzi, si vantavano del numero di chiodi che riuscivano a piantarsi nel callo sotto i piedi: quanti più chiodi, più macho. Radicalmente omofobi, consideravano la donna buona soltanto per la riproduzione e i giovanetti preferibili per il piacere. I loro notabili si mostravano spesso in pubblico (difficile che non continuino a farlo) con un ragazzo rapito o comprato alla famiglia, la cui sorte nel diventare adulto era segnata: respinti dalla famiglia, emarginati dalla società erano (probabilmente lo sono ancora) condannati alla prostituzione o a morire d’inedia. Quanto sopra per dire che era materialmente impossibile che nel giro di pochi mesi da tale stato di arretratezza culturale i talebani fossero arrivati a pilotare gli aerei e a guidare i carri armati con cui si espandevano a macchia d’olio, fino a impadronirsi del Paese. Più probabile che fossero i Pasthun dell’Isi (Inter-Services Intelligence) pakistano a provvedere alla bisogna, con accordo Usa e finanziamento saudita».
Il suo racconto e le sue valutazioni si riferiscono ad un passato che deve per forza essere tenuto presente se vogliamo davvero capire cosa è successo a Kabul e dintorni in questi giorni. E sì perché si è ripetuto lo stesso copione di 29 anni fa. Scrive sempre Calamai: «Innegabile è la vittoria dei talebani, dopo il prodigioso blitz, che li ha visto in pochi giorni conquistare tutto il Paese ed arrivare a Kabul. Un po’ troppo prodigioso, tuttavia, per non ricordare quanto avvenuto all’epoca della loro prima, e altrettanto veloce, presa del potere, all’inizio degli anni ‘90. I body bag che numerosi nei giorni scorsi, secondo persone ben informate, sarebbero stati caricati su camion diretti in Pakistan, sembrano indicare che ancora una volta la travolgente offensiva dei talebani potrebbe non essere stata esclusivamente opera loro, bensì da attribuirsi in gran, se non massima, parte agli uomini dell’ISI (il servizio d’intelligence pakistano) pashtun come loro, parlanti la stessa lingua, come loro vestiti e con loro confusi, ma soprattutto con un’esperienza militare e una dotazione di armamenti che i talebani, quelli veri, non avrebbero potuto neanche immaginarsela. Quella attuale non sarebbe che il ripetersi della stessa messa in scena».
Ma a livello geopolitico, quali saranno i nuovi assetti? Da una parte, quello che è avvenuto, commenta sempre Calamai «sembra fare il gioco dell’Arabia Saudita e più in generale dell’Occidente nel contenimento dell’Iran sciita, dall’altra non può che destare preoccupazioni nel gigante indiano che sicuramente avrebbe preferito uno Stato cuscinetto piuttosto che uno subalterno al Pakistan, preoccupazioni susciterà anche in Russia che, dopo le protocollari strette di mano con i nuovi arrivati, non potrà che invitarli con forza ad astenersi da qualunque tentativo di esportare la rivoluzione sunnita fondamentalista di cui sono portatori verso le repubbliche caucasiche, mentre la Cina avrà probabilmente già sollecitato e ottenuto assicurazioni di non intervento nella situazione degli Uiguri nello Xinjiang, oltre che di apertura all’ambizioso progetto della Via della Seta»
A rimetterci, politicamente parlando (ma non solo…), come inevitabilmente accade a chiunque abbia perso una guerra, sono gli Occidentali, Stati Uniti in primis perché si sono dimostrati ancora una volta tragicamente incapaci di esportare la democrazia come era nelle loro intenzioni. A parte il sacrificio dei militari caduti sul campo in questi vent’anni di occupazione, il costo sostenuto dagli Usa è stato di un trilione di dollari. Il Regno Unito ha speso 30 miliardi, la Germania 19 e l’Italia 8,7 miliardi … Commenta Calamai : « A pagare il prezzo, ancora una volta sarà il popolo afghano, le donne costrette, se vogliono sperare di sopravvivere, a tornare a chiudersi nel pregiudizio, i bambini che potranno imparare solo l’uso delle armi e il Corano». È il caso di ammetterlo: abbiamo fatto una pessima figura.
*Padre Giulio Albanese, missionario e giornalista italiano, appartiene alla Congregazione dei Missionari Comboniani
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