Welfare

L’adozione? Prima di tutto è una “grande bellezza”

La sua vita sembra un romanzo. Ha visto uccidere sua madre, quando aveva solo tre anni, a cinque è scappato nella foresta del Cile, sopravvivendo per tre anni da solo. A otto anni è stato adottato da una coppia italiana. Manuél Antonio Bragonzi oggi ha fondato l'Associazione Nazionale Figli Adottivi: «Abbiamo vissuto cose incredibili e soltanto noi figli adottivi possiamo capire una certa sofferenza: ma possiamo testimoniare la bellezza della vita, dire di aprire gli occhi per accoglierla in ogni momento e non rimanere bloccati dalle difficoltà»

di Sara De Carli

La sua vita sembra un romanzo. Ha visto uccidere sua madre, quando aveva solo tre anni. L'assassino lo prese con sé, facendosi chiamare abuelito (nonnino) nonostante lo frustrasse. Allora scappò nella foresta del Cile, sopravvivendo per tre anni, da solo. Quando lo ritrovarono, aveva 8 anni e sembrava un bambino di 4. Manuél Antonio Bragonzi la sua storia l'ha raccontata nel 2012 in un libro: forse uno dei primi figli adottivi adulti a prendere parola pubblicamente per parlare dell'adozione internazionale dal punto di vista dei figli. Lui che l'aggettivo "adottivo" non l'aveva mai sentito suo oggi è presidente di ANFAD-Associazione Nazionale Figli Adottivi, per aiutare tutti quelli che condividono questa esperienza a cogliere la bellezza della loro vita.

Manuél, ci può raccontare brevemente chi è lei e qual è la sua storia?
Sono Manuél, nato in Cile e adottato nel 1985 da genitori milanesi, quando avevo 8 anni. Ero da poco arrivato in orfanotrofio, da circa sei mesi. Avevo vissuto fino ad allora una vita molto particolare, fatta di sofferenza e bellezza. Vivevo in un villaggio di contadini molto poveri, alcolizzati, che nascondevano la fatica e la fame con il vino. All’età di tre anni vidi uccidere mia mamma che aspettava un mio fratellino: vista la dimensione della pancia, che ricordo bene, credo sarebbe nato/a da lì a poco. L’assassino mi tenne con sé, un assassino che imparai a chiamare affettuosamente abuelito (nonnino). Il ricordo di mia mamma Isabel, morta accanto a me, a un certo punto svanì. Non so dopo quanto, ma non era più nella mia mente. Con il mio abuelito rimasi circa due anni, due anni di sofferenza e maltrattamenti: venivo svegliato quotidianamente con frustate che lasciavano segni urlanti di dolore sul mio corpo. Con il tempo imparai anche a controllare il dolore e a non sentirlo più. Due anni di torture, due anni in cui sia il vecchietto assassino che i ragazzi del villaggio mi consideravano meno che zero. A 5 anni, ero stufo delle violenze che subivo da parte di tutti. Riaffiorò il ricordo di mia mamma. Allora scappai dal villaggio ed andai a vivere in un bosco.

Che cosa è successo?
Rimasi nel bosco per tre anni. Lì scoprii finalmente la bellezza. La vedevo ovunque nella natura, dagli alberi agli animali che la popolavano, dai ruscelli agli uccelli. Ero davvero affascinato dalla forte energia che la natura mi faceva conoscere. Imparai con il tempo ad essere sempre più unito alla natura, fino a sentirmi parte integrante di essa, giungendo alla consapevolezza che anch’io, essendone parte, ero bello come tutto ciò che mi circondava. Questa consapevolezza mi salvò e mi fece intuire che c’era una speranza di bellezza per tutti, anche per gli uomini, anche per chi fino ad allora mi aveva fatto crescere nel dolore e nella sofferenza. Una gioia infinita che regala speranza, una forza che solo l’energia della natura può donarti. Dopo tre anni, mi trovarono dei carabineros che mi portarono in orfanotrofio. Mi trovarono che ero pieno di malattie parassitarie, denutrito: avevo 8 anni ma sembravo un bambino di 4. In orfanotrofio cercarono di curarmi come potevano, senza molti risultati. Dopo sei mesi arrivarono i miei genitori. La stessa notte sognai che due persone stavano arrivando a prendermi per portarmi via, così, quando vidi per la prima volta i miei genitori ero pronto ad accoglierli nel mio cuore. Il mio “sì” a loro fu immediato: non desideravo altro che essere amato, guardato e abbracciato. Il loro fu il primo abbraccio che sentii sul mio corpo, il primo gesto affettuoso nei miei confronti. Fu una bella sensazione. Ero finalmente figlio.

Quindi arrivò in Italia…
In Italia vissi una normale vita da figlio milanese, con una consapevolezza in più della vita, sempre alla ricerca della bellezza del rapporto umano, una consapevolezza che siamo tutti parte della natura, di una unica grande bellezza. Mi laureai a pieni voti all’Accademia delle Belle Arti e iniziai a lavorare nel campo della comunicazione, fino ad essere oggi un regista ed un esperto multimediale. A ripensarci mi sembra incredibile: dall’essere selvaggio a usare le tecnologie avanzate oggi esistenti, insegnando come comunicare.

Avevo 8 anni ma sembravo un bambino di 4. In orfanotrofio cercarono di curarmi come potevano, senza molti risultati. Dopo sei mesi arrivarono i miei genitori. La stessa notte sognai che due persone stavano arrivando a prendermi per portarmi via, così, quando vidi per la prima volta i miei genitori, ero pronto ad accoglierli nel mio cuore. Il mio “sì” a loro fu immediato: non desideravo altro che essere amato, guardato e abbracciato. Il loro fu il primo abbraccio che sentii sul mio corpo, il primo gesto affettuoso nei miei confronti. Fu una bella sensazione. Ero finalmente figlio.

Come, quando e perché è nata l’Associazione Nazionale Figli Adottivi (ANFAD)?
ANFAD l’avevo nel cuore da molto tempo, da anni. Nel 2012 pubblicai, insieme a Marcello Foa, il mio libro autobiografico Il bambino invisibile e iniziai a girare l’Italia e a conoscere moltissime realtà associative di genitori adottivi. Fino ad allora non ero consapevole che esistesse una realtà adottiva, non avevo mai vissuto la mia vita di figlio adottivo: ero stato adottato, sì, ma era per me solo il mezzo che mi fece diventare figlio. Vivevo quindi pienamente l’essere figlio, mai avrei pensato che ci fossero gruppi organizzati, una categoria dell’adozione. L’impatto con queste Associazioni fu per me di totale sorpresa. Avevo notato tante difficoltà, sofferenze e, in alcune circostanze, tanto dolore. Esperienze totalmente diverse dalla mia, già il fatto che si sentivano tutti adottivi, perciò diversi, era per me molto strano. Perché non si sentivano genitori, perché questi genitori e questi figli vivono con l’ombra dell’essere adottivi? Perché non colgono la bellezza della loro vita? Ero turbato da una realtà che non sentivo appartenermi. Decisi quindi di dire “sì” a tutti coloro che mi invitarono a testimoniare la mia vita, a testimoniare la bellezza, a dire di aprire gli occhi per accogliere in ogni momento la bellezza, di non rimanere bloccati dalle difficoltà. Che il bello vince sempre. Era un messaggio che volevo testimoniare a tutti, non solo al mondo adottivo: per me, infatti, non esisteva, esisteva solo l’Uomo. Intanto però il mondo adottivo, che era diventato sempre più una categoria, cominciava ad essere sempre più presente nella mia vita. Era come se la Vita mi imponesse di guardare sempre di più questa realtà. Ogni volta facevo esperienza delle varie difficoltà, dei ragazzi che non stavano bene, dei genitori sofferenti e delle molte complicazioni che l’adozione porta con sé. Due anni fa decisi di essere presente con l’azione, di aiutare in qualche modo il mondo adottivo. Mi contattò una ragazza, Evelyn, mi disse che dovevo raccontare la sua storia, che dovevo aiutarla. Presi informazioni su di lei, molto negative devo dire e tutti mi dicevano di non seguirla perché era un “caso perso”: è una ragazza adottata a 13 anni che a 14 è stata rifiutata dai genitori adottivi, che non conclusero la pratica. Ero titubante, ma alla fine decisi di raccontare la sua storia e di provare ad aiutarla. Questa esperienza con Evelyn ha segnato per me il momento di aprire un’associazione di figli adottivi, per aiutare chi come lei era in difficoltà, aiutare in modo concreto, rispondendo a tutti i bisogni dei figli e dei genitori che non sanno più cosa fare per i loro figli. Così è nata ANFAD.

E oggi?
Oggi abbiamo sede a Palermo, Napoli, Bologna, Milano, Padova, Venezia e un punto di riferimento a Torino. Cerchiamo di aiutare concretamente i ragazzi in difficoltà con il lavoro, con lo studio, con aspetti legali, con la casa, per quanto possibile anche economicamente. Noi figli adottivi abbiamo bisogno principalmente di un equilibrio sociale che ci permetta di vivere serenamente la quotidianità, una volta trovata una serenità sociale poi si può affrontare anche l’aspetto psicologico, che è molto importante. Nulla vieta che si possano affrontare insieme, dipende molto dal ragazzo/a. ANFAD vuole aiutare a migliorare tutto ciò che funziona poco nel mondo adottivo, vuole ad esempio organizzare dei corsi di formazione per gli assistenti sociali e gli psicologi, per far sì che possano intervenire in modo più consapevole, capire le difficoltà dei ragazzi/e rispondendo ai loro reali bisogni.

Non ero consapevole che esistesse una realtà adottiva, non avevo mai vissuto la mia vita di figlio adottivo: ero stato adottato, sì, ma era me solo il mezzo che mi fece diventare figlio. Vivevo quindi pienamente l’essere figlio, mai avrei pensato che ci fossero gruppi organizzati, una categoria dell’adozione. L’impatto con queste Associazioni fu per me di totale sorpresa.

Il prossimo 7 settembre ci sarà un “debutto” ufficiale di ANFAD con la prima festa dell’adozione (il programma sulla pagina Facebook di ANFAD): cos’è questo appuntamento e qual è il suo obiettivo?
Abbiamo voluto realizzare un evento che potesse richiamare tutto il mondo adottivo, per far capire che noi non siamo un’alternativa a nessuno, che facciamo tutti parte di una unica realtà e che dobbiamo lavorare tutti insieme per raggiungere un obiettivo di positività dell’adozione. Ogni Associazione organizza annualmente la sua festa, mi piacerebbe invece poter fare un evento che sia la festa di tutti, partecipato da tutti, famiglie, figli e associazioni, far capire che siamo uniti, che non siamo tanti satelliti di una unica realtà. Sarebbe davvero bello unire tutte le realtà associative, perché abbiamo in comune tutti lo stesso scopo: valorizzare la famiglia e far sì che ci si aiuti a far star bene i figli che soffrono. Quando soffrono i figli, la famiglia intera soffre. Positività significa anche lavorare insieme per sistemare ciò che non funziona, rendere bello quello che non lo è. L’adozione è un dono e non può essere sporcato dai pochi che vedono nell’adozione un elemento su cui speculare. È questo il messaggio della Festa, dare valore al dono dell’adozione, ritornare a guardare la bellezza di essere figli e genitori. La Festa ha proprio questo desiderio di bellezza. Sarà la prima vera Festa dell’Adozione. Abbiamo scelto di valorizzare anche l’origine di ognuno di noi, che arriviamo da più continenti diversi, per far capire ai genitori – che spesso hanno paura del legame dei figli con la propria origine – che la nostra terra sarà sempre con noi, che non possiamo mai dimenticarci da dove arriviamo. È bellezza anche questa, non è un ostacolo al rapporto tra genitori e figli. Per questo motivo, l’idea è di valorizzare un continente di origine in ogni appuntamento della Festa: per il 7 settembre il tema sarà “le meraviglie del Sud America” con cibi, balli e musica della tradizione. Poi ci sarà l’Africa, poi l’India, la Cina e così via. L’ingresso è gratuito, per poter permettere a tutti di essere presenti, anche alle famiglie numerose. Sarà sicuramente una Festa bellissima, tante sono già le adesioni e ne sono davvero molto felice, perché significa che lo spirito è stato compreso.

Le adozioni internazionali in Italia esistono da 50 anni (solo negli ultimi 18 anni, da quando c'è il monitoraggio della CAI, sono ormai più di 50mila i minori entrati in Italia con adozione internazionale): in Italia ci sono ormai tantissimi giovani e adulti adottati con l’adozione internazionale, perché finora non hanno quasi mai preso la parola, non sono diventati un soggetto visibile, non hanno avuto l’esigenza di cercarsi, ritrovarsi, confrontarsi, aggregarsi… e in questo momento invece ci sono tantissime iniziative in questa direzione? C’è un elemento che segna un “prima” e un “dopo”?
Sicuramente la sensibilizzazione che è stata fatta in questi anni ha fatto sì che si potesse parlare di adozione più liberamente. Per questo devo ringraziare il grande lavoro che hanno fatto le tante associazioni di genitori presenti sul territorio nazionale. Anche se ho sempre detto loro che facevano troppi incontri sul “problema” del figlio “adottivo” o sul “problema” dell’essere genitore “adottivo”, di puntare di più sul dono dell’adozione. Perché se un figlio vede che ci sono incontri solo sui “problemi”, ovviamente si convincerà di essere un davvero un problema. Mia mamma mi disse che quando ero piccolo gli psicologi, era il 1985, consigliavano di non parlare della terra di origine o di non dire ai figli che arrivavano a pochi mesi di vita di essere stati adottati (difficile nasconderlo a chi evidentemente aveva caratteristiche somatiche diverse)… quindi la cultura dell’adozione negli anni è cresciuta e sempre di più sono state approfondite le implicazioni che comporta. Diciamo che l’Italia è rimasta un po’ indietro su alcune tematiche, ad esempio l’adottato è visto con curiosità o circospezione, così come i genitori si sentono diversi e giudicati dai genitori “normali”. Il genitore spesso dà molta importanza al giudizio esterno, è il primo a sentirsi diverso e questo comporta una reazione di chiusura e di difesa, nascondendo l’adozione. Quindi, per rispondere alla sua domanda, prima non si era pronti a parlare di adozione, non si era liberi. Il figlio, diventato adulto, non aveva punti di riferimento e viveva la sua vita normalmente, affrontando le sue sofferenze da solo o con l’assistenza di psicologi poco consapevoli del tema. Diciamo che noi figli siamo il risultato di un processo iniziato con la creazione delle associazioni di genitori, nate per sostenere ed essere accanto ai genitori in difficoltà e non. Non vorrei sbagliarmi, ma credo davvero di essere stato uno dei primi adulti adottati a girare l’Italia per parlare liberamente di adozione da figlio, per raccontarne la bellezza e per testimoniare la mia vita da figlio, che ho sempre considerato normale. Penso che la mia visibilità abbia fatto sì che anche altri potessero parlare e fatto capire ai genitori la bellezza della testimonianza dei figli. Questo non grazie a me ma grazie soprattutto alle associazioni di genitori che mi hanno coinvolto, dal Trentino alla Sicilia. Se oggi noi possiamo parlare dobbiamo ringraziare solo loro, le associazioni e quindi i genitori.

Quindi questo è un momento storico particolare in un certo senso?
È un momento storico per il mondo adottivo, un momento preparato negli anni scorsi dai genitori che si sono associati: ora, grazie a loro, noi figli ora possiamo essere protagonisti e pensiamo che finalmente si possa parlare, genitori e figli, e fare un cammino insieme per poter guardare l’adozione a 360°, per capire le problematiche dei figli da loro stessi. Per questo è davvero un momento storico molto importante e i genitori devono essere contenti, non spaventati. Certo, ci sono anche figli che si uniscono per demonizzare l’adozione, per puntare il dito su quello che non funziona e per dire che l’adozione è il male perché a volte viene sfruttata per scopi personali e lucrative. Numericamente non sono tanti questi figli, ma si fanno sentire e i genitori ne sono spaventati. Però, come dico sempre, concentriamoci sul bello e guardiamo alle realtà come la nostra, noi siamo in tanti ed ognuno di noi ha vissuto negativamente o positivamente l’adozione senza mai perdere però la bellezza ed il dono di quello che ci è capitato, riconoscendo nei genitori un valore. Non ci sono in realtà tantissime altre Associazioni di figli adottivi come la nostra, che io sappia ne esistono solo due, aventi scopi diversi: una con sede in Sardegna che vuole unire solo i figli adottivi cileni e che hanno come mission principale il ritorno all’origine e una con sede a Torino che si sta strutturando piano piano, ancora dobbiamo capire la loro mission.

Qual è l’esigenza di ritrovarsi insieme, come adottati adulti?
In generale l’esigenza è molto semplice: far capire meglio i bisogni, da parte di chi li vive in prima persona. Inoltre, per molti ragazzi è più semplice confrontarsi con chi può capire la loro esperienza e le difficoltà che stanno vivendo, poiché siamo tutti adottati e spesso abbiamo un vissuto di sofferenza. Questo vissuto ci avvicina molto, è l’elemento che ci accomuna: non solo il fatto di essere adottati (quello è il meno), quanto la sofferenza. Questo ci accomuna e il fatto che la comprendiamo. I ragazzi vogliono solo essere compresi e un genitore non può comprendere appieno l’esperienza che abbiamo vissuto sulla nostra pelle, può solo intuirla e provare dolore per noi, però questo per molti ragazzi non basta. ANFAD è nata per rispondere anche a questo bisogno, il bisogno di essere capiti nel dolore, di essere abbracciati da chi ha sofferto come loro e sta sorridendo alla vita, per dare una speranza a chi non la vede.

Per molti ragazzi è più semplice confrontarsi con chi può capire la loro esperienza e le difficoltà che stanno vivendo, poiché siamo tutti adottati e spesso abbiamo un vissuto di sofferenza. Questo vissuto ci avvicina molto, è l’elemento che ci accomuna: non solo il fatto di essere adottati (quello è il meno), quanto la sofferenza. ANFAD è nata per rispondere anche al bisogno di essere capiti nel dolore, di essere abbracciati da chi ha sofferto come loro e sta sorridendo alla vita, per dare una speranza a chi non la vede

Nei vostri obiettivi, se non erro, non c’è solo la dimensione del confronto/ritrovarsi ma anche la volontà di essere una risorsa per le nuove famiglie, per i ragazzini e per i genitori. È così? Che tipo di contributo potete dare? Come pensate di darlo? Avete già immaginato qualcosa?
L’auto-mutuo-aiuto non è alla base della nostra mission: noi vogliamo, come ho specificato prima, aiutare in modo concreto i ragazzi in difficoltà, adolescenti e adulti, dalla ricerca del lavoro allo studio, dalla ricerca della casa all’aiuto economico, fino all’assistenza legale, per poi affrontare l’aspetto psicologico con professionisti molto competenti. Per i bambini e adolescenti abbiamo pensato di realizzare corsi che partiranno da settembre, alternativi alle terapie tradizionali, come ad esempio la musicoterapia, teatro, arte, danza e la scritturaterapia. Abbiamo instaurato rapporti di collaborazione con molte associazioni che si occupano di terapie alternative artistiche, sommando la nostra esperienza adottiva e professionisti competenti, abbiamo un progetto veramente molto bello per i figli piccoli e adolescenti. Sempre da settembre avremo in ogni nostra sede uno sportello di ascolto per le famiglie ed i ragazzi che ne avessero bisogno. Abbiamo psicoterapeuti preparati ed alcuni di loro sono anche adottati, un plus per noi, per le famiglie e per i ragazzi che vogliono farsi aiutare. La sede di Milano, che seguirò personalmente, sarà la capofila di tutte le altre sedi che abbiamo in Italia.

Che riscontro avete trovato alla vostra disponibilità?
Siamo davvero felici della risposta di tutti, dai ragazzi – adulti e non – ai genitori. Ci guardano con molta fiducia. Personalmente sono felice che i genitori abbiano capito la bellezza di quello che stiamo facendo, la loro opinione per me conta moltissimo. Se siamo qui lo dobbiamo a loro e alle loro associazioni, per tutto il lavoro che hanno fatto fino ad oggi. Avere la loro fiducia per me conta tantissimo: come noi figli adottivi vogliamo la fiducia dei nostri genitori, così ANFAD vuole la fiducia delle associazioni di genitori, perché noi esistiamo per il bene dei loro figli, ed esistiamo grazie a loro. Stiamo facendo conoscere la nostra realtà anche al “mondo esterno”, come spiegavo all’inizio sono entrato nel “mondo adottivo” per far conoscere al mondo esterno, a cui appartenevo, una realtà fatta di vite che hanno vissuto cose “fantastiche” ed incredibili, da insegnamento per tutti. Abbiamo avuto quindi una risposta molto bella anche da chi non fa parte del mondo adottivo, quando parlo di noi si sentono anch’essi coinvolti e spingono per aiutarci in questo cammino. Siamo un dono e la gente lo capisce.

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