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L’adozione internazionale non sta cambiando, è già cambiata

Nelle scorse settimane su VITA Marco Rossin ha avviato il dibattito sulla necessità di rivedere radicalmente il sistema delle adozioni internazionali. L'intervento di Monya Ferritti, presidente del Care: «Il post-adozione continua a essere l’elefante nella stanza del sistema adottivo. Non servirà al rilancio degli ingressi, ma certamente serve ai minori e alle famiglie. Invece spesso politica e media sembrano più interessati ai diritti civili che ai diritti sociali»

di Monya Ferritti

La Commissione Adozioni Internazionali sta certificando da tempo un calo costante nelle adozioni internazionali, 565 nel 2022. Anche l’adozione nazionale subisce un decremento, sebbene in misura minore. Tuttavia il trend italiano, come i tecnici sanno, si sta allineando all’andamento europeo e mondiale di tutti i maggiori paesi di accoglienza che, in termini assoluti e percentuali, hanno ridotto ai minimi termini il numero di ingressi nelle adozioni internazionali.

L’adozione internazionale è già cambiata rispetto a solo dieci anni fa e i motivi sono multidimensionali, come in tutti i sistemi complessi, e riflettono una variabilità di condizioni, accadimenti e interventi legislativi. In particolare, sono profondamente cambiati i fattori geo-politici e culturali che sono meno favorevoli al sistema mondiale delle adozioni.

Oltre ai paesi in “stallo” (Repubblica popolare cinese e Polonia ad esempio) sono numerosi i paesi di provenienza dei bambini e delle bambine che, nel corso del tempo, hanno decretato la chiusura alle adozioni internazionali (Etiopia, Cambogia, Nepal, Guatemala, ecc.); altri paesi, invece, per motivazioni culturali, sociali, legate a sentimenti nazionalistici o in chiave anticoloniale non hanno intenzione di inserirsi nel circuito.

Questa marcia indietro nei confronti delle adozioni internazionali avviene anche su forte spinta delle associazioni di persone con background adottivo di vari paesi di accoglienza (Svezia, Australia, Canada, ecc.) che stanno cambiando non solo le politiche del Permanent Bureau ma soprattutto quelle dei paesi di arrivo delle adozioni internazionali (Italia esclusa). Infatti, le ferme pressioni associative dal basso, in questi anni, che spesso definiscono le adozioni internazionali “azioni colonialiste e predatorie”, hanno fatto istituire commissioni di inchiesta istituzionali che, come conseguenza, hanno fermato, più o meno definitivamente, le adozioni internazionali ad esempio in Olanda, Svezia, Belgio e Danimarca. In Irlanda c’è un dibattito molto acceso a questo proposito, mentre la Francia ha appena istituito una commissione di inchiesta e sta prendendo tempo per modificare la legge, tenendo conto delle istanze delle persone con background adottivo e delle associazioni familiari. Il dibattito avviene attorno alle adozioni definite “illegali”, avvenute in questi paesi negli anni ’80 e ’90 (spesso in periodo precedente alla Convezione de l’Aja) e che oggi servono da paradigma su cosa non deve accadere nel corso di un processo adottivo.

A fronte di questo dibattito politico e ideologico, però, nei paesi che non consentono le adozioni internazionali, i bambini e le bambine continuano a trovarsi frequentemente in situazioni di abbandono e semi-abbandono, spesso con scarso accesso all’istruzione, alla salute, all’alimentazione sufficiente.

Nei paesi di provenienza, invece, i fascicoli dei bambini e delle bambine sono sempre più complessi. L’età media dei bambini all’ingresso si eleva anno dopo anno, nel 2022 6,5 anni; i fascicoli dei bambini riportano ripetutamente situazioni già conosciute di special needs. Ma ciò che l’associazionismo familiare rileva sono soprattutto le storie di vita sempre più complesse che riguardano i bambini che giungono in Italia a fronte di un sostegno alle future famiglie, soprattutto di tipo psico-pedagogico, quasi inesistente. Sebbene le coppie si preparino all’accoglienza di un figlio attraverso l’adozione internazionale, ciò non può essere sufficiente senza una reale, concreta, competente e gratuita presa in carico dei servizi specializzati. Il post-adozione (dalla presenza sul territorio alla durata del servizio) continua a essere l’elefante nella stanza del sistema delle adozioni, in cui la politica, i media e spesso gli attori stessi del sistema sembrano più interessati ai diritti civili (allargare la platea) che ai diritti sociali e, nei rari casi in cui ci si focalizza su questi ultimi, si inciampa sempre sul pre-adozione in termini di tempi di conclusione dell’adozione e certezza del risultato.

Un sistema di post-adozione competente e diffuso sul territorio certamente non costituisce un’azione strategica per favorire il rilancio degli ingressi delle adozioni internazionali, ma indubbiamente si configura come un asset indispensabile per garantire ai bambini che facciamo diventare nostri figli e alle coppie a cui si preconizza un futuro da famiglia multiculturale, una vita al centro di una rete qualificata di sostegno e supporto sociale.

Monya Ferritti è presidente del Coordinamento CARE, una associazione di secondo livello i cui soci sono le associazioni familiari.

Foto Unsplash

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