Leggi
L’acqua in Italia: bene comune o bene economico?
Che ne è del referendum sull’acqua di dieci anni fa? La volontà popolare è stata rispettata? A queste a a tante domande, prova a rispondere l’inchiesta di VITA
di Luca Cereda
Esattamente dieci anni fa, il 12 e 13 giugno 2011, con un referendum nazionale, gli italiani hanno scelto in modo netto l’acqua come bene comune e collettivo, contro la privatizzazione. In quella due giorni di consultazione popolare si raggiunse per la prima volta dal ’95 il quorum di almeno il 50 per cento più uno dei votanti, richiesto per la validità del quesito. Infatti, oltre il 57% degli aventi diritto al voto, più di 27 milioni di italiani, ha deposto una scheda nell’urna. Dei due quesiti – su quattro – che riguardavano l’acqua, il primo vide il 95,35 per cento dei votanti esprimersi contro l’obbligo giuridico di privatizzare la gestione dei servizi idrici, mentre il 95,80% ha votato “Sì” al secondo quesito che proponeva di abrogare il diritto garantito dalla legge precedente per cui gli investitori potevano realizzare il 7 per cento di profitto sulla gestione dei servizi idrici.
Cosa è successo nei 10 anni trascorsi dal voto referendario
A fronte del plebiscito con cui i cittadini italiani hanno espresso la volontà di continuare a considerare l’acqua un bene comune e pubblico, cosa è successo nei dieci anni che sono seguiti: innanzitutto, siccome i referendum in Italia sono di natura abrogativa, a quella consultazione non è seguita una legge. E senza una legge del Parlamento, ci ritroviamo oggi, nel 2021, con la stessa situazione di dieci anni fa. Eppure sono moltissimi i governi e altrettante le maggioranze che da allora si sono susseguite non hanno mai dato seguito all’esito referendario approvando una legge che ri-pubblicizzasse la gestione dell’acqua. Nessuna maggioranza parlamentare ha concretizzato la volontà espressa dalla maggioranza popolare, servendosi a livello nazionale – ma anche locale – per contrastare a livello politico la volontà degli italiani, di alcuni luoghi comuni per screditare la votazione e dar seguito alle “vecchie poltiche”. Un esempio è il ricorso ad un “luogo comune” per cui in Italia le bollette dell’acqua siano troppo basse e poco care rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea, e per questo possono essere molto limitati gli investimenti per il miglioramento del sistema idrico da parte dei gestori privati e del pubblico insieme al privato. Un’altra scusa usata per mettere l’accento sulla presunta efficienza del gestore privato è quella per cui le perdite e gli sprechi del sistema idrico nazionale, sarebbero causati dai cittadini nelle loro case. Ma è davvero così?
Quindi l’acqua è pubblica o privata?
La riposta a questa domanda sembra – senza passare dai filtri dell’artificio retorico della classe politica e amministrativa degli ultimi 10 anni – scontata: ed è no. Infatti oggi la nostra rete idrica si trova in uno stato deplorevole, per non dire pietoso, e certo non per via degli spechi domestici: secondo l’Istat infatti il 42% dell’acqua in distribuzione si perde per l’inefficienza dei sistemi, per la mancanza di manutenzione, ma anche a causa di impianti vecchi. Questo significa che per ogni 1000 litri immessi nel sistema, 420 vengo persi. Un’enormità.
Se con la semplice consultazione dei dati di Istat si risponde alla seconda “scusa” per la mancata applicazione di quanto voluto dagli italiani con il referendum del 2011, l’altra risposta è più complessa. La questione per cui in Italia le bollette dell’acqua siano troppo basse e per questo motivo limiterebbero le spese e gli investimenti per il miglioramento del sistema idrico, non regge al primo controllo: il costo delle bollette nel Belpaese ha subito un aumento di quasi il 90 per cento negli ultimi dieci anni. Costi che restano bassi rispetto ad altri paesi Europei, ma sono pur sempre un aumento di quasi il doppio. E per cosa? Analizzando i motivi di questo risultato emerge il “tradimento” al referendum di 10 anni fa: infatti l’aumento progressivo delle bollette cela il fatto che sia l’attuale sistema di gestione privatistico o di commistione tra pubblico e privato a produrre questi pessimi risultati. Il vero e proprio tradimento del referendum del 2011, sta nel fatto che la dispersione dell’acqua nella rete non costituisce un problema per le Spa, in quanto le perdite vengono spalmate sulle bollette dei cittadini. Che pagano l’inefficienza di un servizio privato o a partecipazione privata. E c’è di più, come testimonia il report del Forum italiano dei movimenti dell’acqua: in molti casi non sono stati fatti neppure gli investimenti che erano in programma perché già approvati e di fatto già pagati in bolletta dai cittadini, per alimentare gli utili dell’impresa che di volta di volta “cura” l’apertura dei rubinetti dell’acqua sui territori. Insomma, questo è un modello che arricchisce i gestori con i soldi pubblici a danno del sistema idrico, del servizio pubblico e della collettività.
Se l’acqua è un bene privato
La realtà odierna mostra che i profitti sull’acqua si realizzano e si distribuiscono sotto forma di dividendi – sullo stile delle aziende –, quel sistema abolito proprio dal referendum, che in questo campo vengono chiamati “oneri finanziari” del gestore: da qui alla quotazione dell’acqua in borsa non si è così lontani.
Nel Bel Paese l’unico “retaggio attivo” del referendum – e che vede ancora l’acqua considerata un bene pubblico come gli italiani hanno voluto –, è il seguente: tutti i gestori, pubblici, privati e privati a partecipazione pubblica, devono seguire una precisa indicazioni di Arera (l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) e imporre una tariffa agevolata ad utenti per almeno 90 litri d’acqua al giorno per persona. E questo parametro supera di 40 litri a quanto chiesto dall’OMS.
A questo punto del bilancio del sistema idrico nazionale nel decennale del referendum in cui gli italiani hanno scelto che l’acqua fosse un bene pubblico, è importante ricordare che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi climatica. Che tocca anche la nostra penisola. Sulla base dei dati elaborati dall’Agenzia Europea per l’Ambiente e dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico l’Italia, e in particolare le regioni del Sud, saranno sempre più colpite da periodi di siccità, e di conseguenza da eventi estremi come gli incendi che sono già “protagonisti” in estate. Nello stato attuale, il sistema idrico non è pienamente in grado di assicurare la presenza stessa dell’acqua e meno che mai la sua sicurezza in quanto a salubrità, a causa della mancanza di pianificazione. Anche perché è fondamentale ricordare che la gestione dell’acqua impatta sul suo uso civile, ma anche industriale, e agricolo.
La crisi ambientale e il costo dell’acqua…
Nonostante in Italia il 20 per cento del territorio rischi la desertificazione nei prossimi anni, «non ci saranno problemi di approvvigionamento d’acqua. Per questo, – spiega Gianfranco Becciu, docente di costruzioni idrauliche al Politecnico di Milano – i gestori non intervengono sulle strutture idrauliche: il loro piano per non mettere mano ai loro profitti è immettere più acqua nelle reti, di cui una grossa parte va consapevolmente persa, anziché apportare interventi molto costosi». Questo è al momento possibile perché l’Italia non ha grandi problemi di approvvigionamento, ma tutta quest’acqua persa è acqua rubata consapevolmente alle generazioni del futuro, e anche del presente.
Se questo problema resta quindi attuale ma sullo sfondo, c’è un altro problema: «le risorse idriche stanno peggiorando la loro qualità». Nei ghiacciai, nei laghi e nelle falde. E di conseguenza i costi di potabilizzazione sono destinati a crescere.
…soluzioni a breve, medio e lungo termine
Un quadro ambientale a tinte fosche anche per che prospetta però all’orizzonte . L’Italia ha degli standard molto elevati rispetto alla potabilità dell’acqua ma, di fatto, il 70 per cento per servizi per cui la si usa non li richiederebbe. «L’acqua per lo scarico dei servizi igienici. Così come l’acqua per lavare le strade. È tutta acqua che non ha bisogno di essere sottoposta ad eccessivi filtraggi», continua il prof Becciu. In un futuro prossimo – da un lato – dovremmo prevedere processi di potabilizzazione differenziati tra le acque di prima falda, potabili al cento per cento, e le acque piovane utilizzabili per il restante 70 per cento dei servizi. «Alcuni gestori di impianti cercano già oggi di riutilizzare, con l’obiettivo di un minor impatto ambientale, le acque in uscita dai depuratori di loro competenza», conclude il professor Becciu.
Dall’altro lato, la revisione degli impianti e degli acquedotti, viste le perdite di litri e litri d’acqua ogni secondo, è diventata una delle priorità di investimento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr)?
Il Pnrr investe davvero – e dove più occorre – sul risanamento della rete idrica?
Il Pnrr, per quanto riguarda l’acqua, la sua gestione e chi ne gestisce il servizio, prevede investimenti per “garantire la gestione sostenibile delle risorse idriche lungo l’intero ciclo e il miglioramento della qualità ambientale delle acque interne e marittime”. Ma la cosiddetta riforma del settore idrico contenuta nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, pur essendo stata presentata all’Europa come un modo per rafforzare di dell’acqua gestisce la governance, nella pratica prepara la definitiva spallata al referendum del 2011, pianificando la privatizzazione del servizio idrico attraverso la conquista del Sud Italia da parte delle società private del Centro Nord Italia. Insomma, si tratta di un rilancio dei processi di privatizzazione o di unione tra pubblico e privato che mirano ad allargare i territori di competenza di alcune grandi aziende che gestiscono già i servizi pubblici fondamentali – come la rete dell’acqua, ma anche i rifiuti, la luce e il gas. Mentre il Pnrr tace su ciò che sarebbe prioritario, ovvero approvare una legge attuativa dell’esito referendario del 2011.
Photo by Tosab Photography on Unsplash
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.