Cultura

L’abolizione dell’uomo?

Stiamo vivendo uno "choc di futuro", come lo chiamava Alvin Toffler. Velocità e accelerazioni del cambiamento sociale rischiano di essere (mal) comprese attraverso categorie fuorvianti. Categorie che escludono, anziché includere

di Pietro Piro

A quale gioco giochiamo

Da quando osservo "i nuovi arrivati" alla cabina di regia della vita politica italiana, sono colto spesso dalla preoccupazione – che spero vivamente sia del tutto infondata – che in questa fase storica non ci renda conto fino in fondo di quale sia "il gioco a cui stiamo giocando". Tutto il pullulare dei segni, moltiplicato all'infinito dai mezzi che utilizziamo sempre più per nasconderci dal mondo, rimanda a una distrazione profonda, a una mancanza di presa di coscienza del senso della parole e della tragedie della Storia.

Occorre trovare un nesso tra il gesto di aggressione ad un omosessuale, l'ordinanza di un sindaco contro l'accattonaggio, l'omicidio di un bracciante agricolo che vive in una baraccopoli abusiva, lo sgombero in diretta TV di una palazzina occupata, il respingimento d'immigrati alla frontiera, il pestaggio di attivisti per la Pace. Un nesso che non ricada troppo facilmente in una definizione che chiude ed archivia, come potrebbe essere la frettolosa definizione di fascismo.

Temo che il nesso possa essere trovato in una reazione dell'intero corpo sociale che di fronte al terrore del cambiamento imposto dalla prepotenza dell'accelerazione in atto, prova a ri-fondarsi appoggiandosi a categorie di base: amico-nemico, cittadino-straniero, ricco-povero, che servono a dare sicurezza e impressione di dominio sul flusso del divenire. Una urgenza cognitiva che riduce l'ansia e promette benessere e sicurezza in un mondo percepito come minaccioso e insicuro.

Già nel 1970 Alvin Toffler scriveva che: "I cittadini delle nazioni più ricche e tecnologicamente più progredite del mondo, almeno molti di essi, troveranno sempre più penoso stare al passo con l'incessante richiesta di mutamento che caratterizza la nostra epoca. I mutamenti che dilagano nei paesi ad alta industrializzazione con ondate sempre più veloci e dalla forza d'urto senza precedenti. Lasciando sulla loro scia curiose flore sociali […] personalità bizzarre. L'accelerazione dei cambiamenti non si limita infatti a investire le industrie o le nazioni; è una forza concreta che penetra in profondità nelle nostre esistenze personali, ci costringe a interpretare nuove parti, e ci pone di fronte al pericolo di un nuovo malessere psicologico capace di sconvolgerci in modo formidabile. Questo nuovo malessere può essere chiamato 'choc del futuro' […] Disponendo di così pochi indizi riguardo al genere di comportamento che è razionale nelle circostanze radicalmente nuove, la vittima potrà benissimo diventare pericolosa per se stessa e per gli altri" ( A. Toffler, Lo choc del futuro, Rizzoli, Milano 1971, pp.17-19).

Ritengo che questa diagnosi sia adatta per comprendere il nostro tempo: stiamo cambiando velocemente e il rischio è che la maggioranza delle persone non si senta pronta al cambiamento e "ripieghi" su categorie che sembravano morte e sepolte e che, invece, tornano come fantasmi ad agitarsi nel mondo dei vivi.

Introduciamo così, nel tessuto sociale una logica esclusiva dove gli aventi pieno diritto di cittadinanza sono veramente pochi e gli altri, sono tutti destinati al naufragio. Costruiamo nelle nostre teste città una immaginaria e tipicamente paranoica, dominata dalla paura e dal sospetto, dove conta l'appartenenza e non l'agire. I canoni nuovi sono sempre più stringenti e le tipologie si fanno sempre più marcate: immigrato, drogato, malato, vecchio, straniero, gay, clandestino, disoccupato (elenco praticamente infinito). Definizione-chiave che servono a costruire una società dove di fronte al cambiamento ci sia almeno qualcosa a cui aggrapparsi. Che importa se il clandestino è anche medico, scrittore, attivista politico, padre e marito. Quello che conta è riuscire a dargli subito un etichetta per riconoscerlo nel caos del mutamento. Una bella targhetta per sistemarlo nel grande scaffale della società delle merci.

Dopo i tentativi totalitari del Novecento e lo sterminio di milioni di vite, dovrebbe essere evidente per tutti che la riduzione dell'uomo a una definizione singola, a una categoria-cosa (l'ebreo, il nero, il dissidente, il disfattista, il sabotatore, il nemico del popolo) conduce inevitabilmente al pensiero successivo: la possibilità di fare di queste persone-fatte-cose quello che si desidera, quello che giova all'ordine sociale, alla pace mortale della società del consumo. Perché la persona-fatta-cosa, diventa troppo facilmente parassita, costo sociale, peso per la società, scarto. Ogni comportamento che va nella direzione di definire l'altro con un termine unico che lo definisce e lo rinchiude è da leggere come movimento verso la disumanizzazione, la passione necrofila per le cose morte. Il vivente si sottrae a ogni definizione e nello spazio dell'incontro il volto muta mille e mille volte durante una sola conversazione che sia condivisione d'affetti.

Allora, ogni volta che si parla degli immigrati, dei clandestini, dei rifugiati, bisognerebbe urlare con tutte le proprie forze: "questa parola non ha senso, non significa nulla, è solo un carcere dove cercate di rinchiudere l'uomo un altra volta. Vergognatevi, voi tutti, che non avete il senso della storia, che non serbate la memoria delle camere a gas e delle fosse comuni".

L'abolizione dell'uomo

Turbato da questi pensieri, provo a trovare "ragioni per sperare" in due volumi ricevuti in dono da amici premurosi. Entrambi sono due ristampe. Il primo è del celebre autore delle Cronache di Narnia e delle Lettere di Berlicche, Clive Staples Lewis, L'abolizione dell'uomo, Jaca Book, Milano 2016. Il libro, scritto nel 1943, contiene ancora oggi delle preziose indicazioni. Convinto che: "Il compito degli educatori moderni non è di sfrondare le giungle, ma di irrigare i deserti" (p. 20) Lewis ci mette in guardia rispetto all'ottimismo nei confronti della conquista della natura da parte dell'uomo. Una conquista che rinforza il dominio di una ristretta élite e che produce una massa di "uomini senza petto". Ogni potere raggiunto dall'uomo aumenta a dismisura anche il potere di soggiogamento e manipolazione. L'eugenetica, il condizionamento pre-natale, istruzione e propaganda finalizzate al dominio, mirano tutte ad aumentare il potere di controllo di una società in cui pochi hanno il governo delle menti dei molti (p. 62). Lewis ci mette in guardia dalle strategie di condizionamento che inducono a perseguire obiettivi che favoriscono solo i persuasori (p. 65) e che portano a una felicità vuota: "non è detto che i loro soggetti siano necessariamente uomini infelici. Non sono affatto uomini, ma semplici artefatti. La conquista finale dell'Uomo si è rivelata come l'abolizione dell'Uomo" (p. 67). Fondamentale questo scritto di Lewis perché permette di riflettere sul fatto che se l'uomo sceglie di trattare se stesso come materia prima, materia prima sarà e purtroppo, materia nelle poche mani di condizionatori disumanizzati (p 74).

È oggi ancora più forte l'esigenza di una educazione linguistica che arricchisca le nostre capacità comuni di comprensione e intelligenza, di rapporto autentico e attivo con gli altri e col vasto mondo. Una educazione linguistica che dia diffusamente, a tutte e a tutti, quella lingua che, continuiamo a sperarlo e a operare per ciò, ci fa eguali

Tullio De Mauro

Scrive Lewis: "I valori umani sono destinati a essere "ridimensionati" e il genere umano a essere rimodellato secondo la volontà (o, addirittura, secondo l'arbitrio) di pochi fortunati di una generazione fortunata che abbia imparato come farlo. Credere che si possano inventare "ideologie" a piacere, e di conseguenza trattare il genere umano come pura natura, esemplari preparati, comincia a condizionare il linguaggio, il nostro stesso linguaggio. Una volta si uccidevano gli uomini cattivi: oggi si liquidano gli elementi asociali. La virtù è diventata integrazione e la diligenza dinamismo, e i giovani idonei alla leva sono quadri potenziali. Cosa più straordinaria di tutte, le virtù della parsimonia e della temperanza, e persino dell'intelligenza comune sono ostacoli alla vendita" (pp. 76-77). Cosa direbbe oggi Lewis di un mondo in cui il linguaggio della merce ha praticamente influenzato ogni nostro piccolo comportamento e colonizzato il linguaggio quotidiano? Forse l'abolizione dell'uomo è giunta a un livello più avanzato?

L'arte di vivere

Per provare a rispondere a questo inquietante interrogativo, potrebbe essere utile leggere il libro di Franco La Cecla, Ivan Illich e l'arte di vivere,elèuthera, Milano 2018. Il libro è una sapiente ricostruzione delle principali tappe del percorso teorico di Ivan Illich attraverso la narrazione biografica dell'amicizia di La Cecla con Illich. L'intento di La Cecla è di riportare l'attenzione sulla proposta originaria di Illich per svincolarlo da letture eccessivamente di parte: "In giro c’è troppo presunto e autodichiarato illichianesimo e poco Illich. Illich se lo contendono varie truppe di seguaci che pretendono di ispirarsi a lui, dai fautori della decrescita più o meno felice alle frange cattoliche antimoderniste, ai neotolstoiani, fino ai grillini e a varie altre componenti di un sedicente mondo «alternativo». Insomma Illich, proprio perché il suo pensiero, soprattutto in Italia, è così poco letto e conosciuto, è diventato un facile padre e un facile guru. Con tutti i pericoli di questa situazione. Primo tra tutti il non prendere sul serio ciò che ha veramente detto e scritto, e secondo il non riuscire ad averne mai una visione «distaccata». Sembra che per leggere Illich bisogna essere sempre un po’ militanti di qualche causa […] Uno dei pericoli è però che Ivan venga riassorbito nell’ambito confessionale di un pensiero «cristiano», che venga in qualche modo «santificato» o «beatificato» da una Chiesa che ha tutto l’interesse a smussarne gli spigoli e ad assorbire il suo pensiero all’interno di un antimodernismo cattolico che in questo momento è in piena ascesa. […] Ivan non è stato solo un pensatore sofferente, è stato un pensatore scomodo e arrabbiato, efficace e radicale, non riduciamolo a una visione pietista per favore, anche se questo può servire a «convertirlo» in un pensatore utile alla Chiesa di oggi o ad altre piccole chiese. Delle altre piccole chiese ho meno timore: del militantismo eco-friendly, o – peggio – di una riscoperta della convivialità da parte di una certa sinistra che si ispira all’Autonomia, o del militantismo dell’unplugging, dell’anticapitalismo facile, dell’oltranzismo «chilometro zero» o del latouchismo facile. È vero che tutto questo mondo ha bisogno di Illich solo perché ne può prendere gli slogan, ma poi la sua ispirazione più generale è molto più difficile da assorbire" (pp. 10-14).

La Cecla riesce a dare una risposta all'interrogativo su cosa sia rimasto di Illich oggi, anche attraverso una "decostruzione" della figura mitica di Illich, figura titanica con cui rapportarsi non era facile senza cadere nella subordinazione o lo scontro frontale (p. 100).

Ma nell'economia del nostro ragionamento, la parte più importante non è quella dedicata alle idee di Illich quanto a delle preziose indicazioni che La Cecla fornisce per vivere il nostro presente. Scrive La Cecla: "Oggi cambiare il mondo, di fronte alla situazione disastrosa dal punto di vista ecologico e sociale, è sempre più difficile. Ma certamente il mondo lo si cambia a partire da un cambiamento di mentalità, e questo non avviene perché qualcuno insiste politicamente martellando la gente e dicendole che è fottuta. Nel catastrofismo c'è una forma di disperazione immobilista.[…] Credere nell'umanità significa liberarla anche dallo spettro del potere dappertutto, sia esso fatto da una Chiesa corrotta o dalle istituzioni debilitanti. […] La storia dell'umanità non è fatta solo di dominanti e dominati, ma è fatta anche di ciò che quotidianamente la gente vive, resistendo al potere che viene imposto da istituzioni e prepotenti. C'è una moralità nella vita quotidiana che fa si che la gente costituisca e ricostruisca continuamente quei legami e quelle reciprocità di cui Illich accusava la scomparsa. […] Sembra che nulla si possa fare, ma poi invece sono le azioni, la buona volontà, le proteste su questo e su quello che cambiano effettivamente in meglio alcuni pezzi di quell'insieme, che allargano degli spazi, che fanno capire che l'ultima parola non è detta. […] Le nuove generazioni di questo secolo hanno bisogno di non scoprire di essere nel momento e nel posto sbagliato, ma di capire che cosa c'è adesso di buono nell'essere vivi e insieme in un posto. Non hanno bisogno di un'applicazione della militanza politica a quella intellettuale, ma di qualcos'altro, di un apertura all'inedito e all'inaspettato, di un apertura allo stupore" (pp.111-113).

Occorre urgentemente – e questo messaggio ci arriva forte e chiaro da Ivan Illich – riscoprire l'arte del vivere, del morire e del soffrire, evitando di stordirci con anestetici che privandoci sempre di più dell'uso dei sensi ci rendono estranei a noi stessi.

Educarci alla gioia

Nella vita quotidiana possiamo ancora creare legami di fraternità. Condividere e prenderci cura l'uno dell'altro. Aprirci alle infinite possibilità della relazione e dell'incontro. In questi giorni difficili rileggo spesso lo scritto di Giuseppe Dossetti, Una grande solidarietà senza confini, in cui scrive: "Non c'è da avere paura: se voi accogliete un uomo come uomo e come fratello non vi verrà altro che bene; se voi lo accogliete con riserva e mettete una certa barriera e vi volete difendere da lui, preparate la disgrazia per voi". Non c'è da avere paura. Nessuna.

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