Formazione

La vita in cammino: il bisogno della speranza

Dobbiamo riscoprire il sentimento dell’humanitas. Solo da questa riscoperta può nascere una nova solidarietà, ovvero quel necessario sentimento di fraternità, frutto della consapevolezza dell’appartenenza comune a un destino

di Angelo Palmieri

L’incertezza profonda che viviamo la fa da padrona. Essa incide il nostro cammino di vita che ha bisogno di forme di solidarietà e di legami con gli altri e si riscopre invece sempre più privo di ancoraggi simbolici e ripari protettivi capaci di marcare un orientamento di senso.

Tutto è avvertito come “energia senza forma”. Questa particella virale infettiva sembra rammentare a ciascuno di noi che è solo una illusione pensare emotivamente che “tutto torni al proprio posto”.

Le varianti narrative oltremodo confuse di questo tempo sembrano avviluppate da una banalizzazione e da una strumentalizzazione preconcetta e si rivelano mistificatorie più che informate a ragioni biologiche, sanitarie e sociali. Questo shock è soprattutto sociale, di comunità smarrite e già in narcolessia da tempo, sin da quando siamo stati attraversati daaltri due shock globali, l’attacco alle Torri Gemelle e la crisi del 2008.

Ma la vita di ciascuno di noi (e delle nostre comunità) è chiamata alla resa dei conti con sorella Morte, la grande rimossa del delirio tecnocratico e di una crescita illimitata, divenute esplicitazione del Sommo Padre della Globalizzazione.

Il tempo della modernità liquida, affermatasi nel corso degli anni Novanta e inizi del Duemila, non può non dirsi concluso. E sul senso della precarietà possiamo senza alcuna esitazione ed alcuna mistificazione, magari recitando un mea culpa collettivo, riconoscere la condizione inestirpabile di ogni dimensione umana e sociale.

Non si potrà ripartire senza osare risposte di senso, specialmente collettive, alla precarietà come dimensione costitutiva, ontologica.

Le fragilità, più volte ammantate da deliri di efficientismo, si mostrano senza travestimenti: sono compagne irrevocabili della vita sociale. Si avverte, dunque, l’urgenza di una nuova direzione, senza cedere alle sirene incantatrici di una routinaria fiducia ormai evanescente.

Siamo obbligati ad una revisione delle nostre ermeneutiche categorie interpretative, tutte da reinventare.

Tutti orfani e spogli di un disincanto affettivo, privi di un “nuovo simbolico” in grado di dare nome e significato a “quell’ethos di trascendimento” (Giaccardi, Magatti) oggi necessario per convergere verso un ordine sociale rigenerato.

Patiamo, forse in uno stato ancora poco cosciente, il bisogno di una prospettiva verso un corpo sociale più inclusivo.

C’è bisogno di immaginare una nuova forma di vita sociale, partendo da una domanda di visione e da percorsi inediti per realizzarla. Occorre una nuova forma di vita comunitaria che includa la dimensione del rischio, più volte insipientemente elusa, che ha determinato notevoli costi umani, sociali ed economici. Non possiamo più permetterci il lusso di venir meno ai veri obiettivi trasformativi capaci di portare a valore il tema dell’ambiente, della sanità, dei beni non solo individuali ma di comunità.

Come e dove investire per rinnovare un modello economico? Da dove cominciare? Le lunghe code alle mense della Caritas rappresentano una drammatica iconografia degli effetti devastanti di questa virulenta pandemia, radicalizzando le contraddizioni di fondo di un paradigma economico sostenuto dalla falsa idea che il mercato lasciato a sé stesso favorisce la crescita e che l’individuo si realizza attraverso il consumo.

Dunque, necessita una riflessione nuova sul senso del bene comune che possa finalmente determinare riflessi e prospettive nuovi nelle relazioni con gli altri e sull’economia reale, innescando una rigenerazione economica e sociale.

Sarà altresì determinante cogliere con maggior estro la questione della solidarietà, non come sovrastruttura ideologica, ma quale fondamento della stessa vita sociale (Magatti) che aiuta a trasformare la lontananza in prossimità, la mancanza in presenza; a ritrovarsi in compagnia perché pronti ad accogliere ragioni di senso, di futuro e di speranza; a ritrovare una solidarietà in carne ed ossa capace di “provocare” tutti, come persone e comunità.

Una solidarietà che sappia farsi cura dinamica e avvalorante, partendo dall’esperienza inedita sperimentata in questo lungo periodo di confinamento forzato. Una solidarietà tutta pregna di un potenziale ancora inespresso.

Magari sostenuti dalla grande lezione di questa odierna drammatica storia: siamo indissolubilmente legati gli uni agli altri. Diceva il buon Seneca in una famosa Lettera a Lucilio: Habeamus in commune: in commune nati sumus. Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur, siamo nati per vivere insieme. La nostra società è molto simile ad una volta di pietre che, destinata a cadere se le pietre non opponessero vicendevolmente resistenza, proprio per questo reciproco sostegno si regge. Nessuno è monade. Nessuno può sperare di salvarsi rinchiudendosi nella propria roccaforte.

L’ossessione delirante del principio di autonomia degli ultimi decenni è palesemente sconfitta. L’humanitas è un sentimento di bontà universale, senz’alcuna discriminazione razziale, religiosa, sociale. Da essa nasce la solidarietà, ovvero quel necessario sentimento di fraternità, frutto della consapevolezza dell’appartenenza comune e della condivisione d’interessi, che trova espressione in responsabili comportamenti di reciproco aiuto e altruismo.

Questo inestricabile legame nasconde un forte potenziale generativo; bisogna liberarlo, dargli forma, con il concorso di tutti e con il sostegno anche di Istituzioni coese e ben funzionanti che fungano da base protettiva e in grado di assicurare quel minimo senso di appartenenza contrariamente al persistere di trame litigiose, precarie e logorate dall’unica preoccupazione di dover durare.

C’è un incredibile fame di speranza. Ma la speranza va coltivata ed esige visione, costruzione, coraggio e militanza, pur nella consapevolezza di non conoscere ancora con precisione la meta ma con la convinzione, come diceva Ernst Bloch, “che noi siamo potenza, noi siamo infinito”.

Abbiamo un comune destino. Habeamus in commune: in commune nati sumus. Siamo nati per stare insieme. Le relazioni umane devono tornare ad essere centrali nel nostro cammino di vita. In esse trova salde radici la speranza di un nuovo tempo umano.

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