Qualità e dignità alla vita del malato

La vita è mutamento, così si affronta la paura della perdita

Di fronte alla morte, ci sentiamo impauriti e inadeguati. Tutti avremmo le risorse per accompagnare gli altri (e noi stessi) in questa fase dell'esistenza, se barriere culturali non ostacolassero il nostro saper stare nella sofferenza e alleviare quella altrui. Ecco qualche consiglio tratto dalle competenze di chi lavora nelle cure palliative e nel fine vita

di Nicla Panciera

La sofferenza, in particolare quella legata alle fasi terminali dell’esistenza, è qualcosa che riguarda chiunque ma per la quale nessuno si sente pronto. L’esperienza più comune è quella di doversi prendere cura degli altri, genitori, familiari o amici, ritenendo, erroneamente, di non avere gli strumenti adeguati. All’origine di questa falsa credenza, come dimostrano le evidenze e le cure palliative, c’è la paura, mancando noi di esperienza e avendo fatto della morte e in parte anche della sofferenza un tabù.

Scarsa dimestichezza

«La preparazione al morire riguarda in primo luogo la nostra propria morte, che insieme a quella della nostra finitudine è un’idea che siamo culturalmente portati ad allontanare dalla nostra mente. Coltiviamo l’illusione dell’eterna giovinezza, ci aspettiamo che la medicina guarisca tutto e, diversamente dalle epoche precedenti, della morte abbiamo un’esperienza meno diretta e naturale» spiega Sonia Ambroset, psicologa clinica con una lunga esperienza di supporto alla fine della vita e al lutto.

Sonia Ambroset

Per questo, di fronte al fine vita di un proprio caro, «ci si sente impauriti e inadeguati anche se, nell’esperienza concreta delle cure palliative, verifichiamo che, se adeguatamente accompagnati e supportati, tutti hanno le risorse necessarie per affrontare questa parte dell’esistenza».

La compassione

Una di questa è la compassione che, come indica l’etimologia greca, significa “soffrire con” e indica quel fenomeno per cui percepiamo gli stati d’animo altrui e siamo naturalmente portati ad alleviarli. È questo suo essere motore all’azione spaziosa e incondizionata che la distingue dall’empatia. Ma non è questa l’unica differenza, spiega Sonia Ambroset, che ha lavorato in diversi ambiti del mondo psico-socio-sanitario, dalle carceri, agli hospice, agli ospedali. «La compassione è quel senso di vicinanza e connessione con i viventi che ci fa percepire la sofferenza anche di coloro che non ci sono direttamente vicini come i nostri familiari e i nostri amici. La compassione fa sì che ci sentiamo coinvolti e responsabili anche di ciò che accade lontano da noi».

La vita è cambiamento

Nell’affrontare e accettare la morte, sarebbe di grande aiuto capire che «viviamo nell’impermanenza e che la perdita è la legge del mondo» come ha detto Joan Halifax, antropologa americana e monaca zen, celebre per la sua attività nel campo dell’accompagnamento ai morenti e alle persone che li assistono, nel suo primo intervento organizzato in Italia, intitolato “Nel cuore profondo della compassione”. Halifax è impegnata nel dialogo tra buddismo e occidente, ma non tutti hanno gli strumenti per ispirarsi alla filosofia o alla tradizione buddista che sul tema del divenire hanno molto da dire. Barriere culturali impediscono spesso di vedere le cose come stanno: «Abbiamo disimparato a stare con la sofferenza e con gli stati d’animo spiacevoli e non vediamo che la vita è mutamento» commenta Ambroset. «Abbiamo coltivato un altro modo di stare al mondo, proviamo rabbia o risentimento se qualcosa non va come vogliamo, come se avessimo un senso di credito verso l’esistenza, mentre la vita non ci deve niente». Comprenderlo, sarebbe un primo passo.

La compassione nella pratica medica

Di compassione si parla spesso in riferimento alla professione medica, per denunciarne la mancanza, che mina l’efficacia della pratica clinica e la qualità della relazione medico-paziente, oltre al benessere di entrambi. Infatti, si ritiene che a soffrirne siano anche i medici, impossibilitati dalle condizioni organizzative a fornire cure compassionevoli: essere costretti a operare in modo discrepante rispetto alle proprie credenze e valori favorirebbe sofferenza e burn-out. «Burn-out che tra i palliativisti è più basso rispetto alle altre specialità» conferma Ambroset che aggiunge: «Altre due ulteriori ragioni, sempre collegate al tema dei rapporti umani, sono il fatto che in cure palliative si lavora in équipe e si collabora tra colleghi e che le relazioni che si creano con i pazienti e le loro famiglie tendono ad essere autentiche ed essenziali,  e questo è un vero e proprio privilegio che rende il servizio nelle cure palliative un’opportunità di crescita reciproca».

Esserci nella sofferenza

Cosa possiamo imparare da chi è continuativamente esposto alla sofferenza? «Non abbiamo nulla da insegnare, il nostro compito è accompagnare e fare un servizio di vicinanza e condivisione. Non sentirsi soli è già di per sé fondamentale» puntualizza Ambroset, che evidenzia anche altri aspetti importanti, come «la scoperta delle proprie risorse e della capacità di stare nel dolore e nella realtà, che è spesso molto dura. Sapere che il lutto è un’esperienza che si può vivere e che ne siamo stati capaci è prezioso per il futuro». Un altro aspetto importante è quello di «iniziare a vivere la propria vita in modo consapevole, perché non è eterna. Si può maturare questa consapevolezza proprio in seguito a un lutto, ma è un processo che richiede del tempo». Infine, ciascuno ha i propri modi e tempi e per alcuni l’esempio e le parole altrui non bastano, ma serve lo scontro con la realtà dolorosa. Per usare le parole del giornalista e scrittore Pico Iyer, nel suo editoriale “Il valore della sofferenza” (“The value of suffering ”) apparso sul New York Times, «si schianta con la macchina o ha un attacco di cuore e all’improvviso la calamità agisce su di lui come una sveglia; con un impatto che nessun mezzo più gentile può evocare, la sofferenza lo squarcia e lo spinge a cambiare i suoi modi».

Un dovere civico

Ci sono ragioni profonde, spesso personali, per cui ci si avvicina al fine vita. Che si tratti di operatori sanitari, medici o volontari delle associazioni, «ciascuno ha la propria, per me è un dovere civico» racconta Ambroset. «Inoltre, so bene che è un privilegio farlo perché è un lavoro nutriente, stare accanto alla finitezza della vita ce ne fa comprendere la preziosità e questa consapevolezza che ne otteniamo è un grande dono».

Profonde radici evolutive

La presenza di comportamenti di aiuto e di soccorso nel mondo animale conferma le profonde radici evolutive della cura, che ci accompagna fin dalla nascita e ci consente di sopravvivere, avendo un’età infantile prolungata e un raggiungimento tardivo dell’età riproduttiva (e, rispetto alle altre specie umane estinte, noi non siamo neppure i più lenti). La ricerca ha sfatato anche il mito che Sapiens sia l’unico vivente capace di farsi di carico di conspecifici feriti o malati incapaci di badare a sé stessi.

Coltivare la gratitudine

Quando al possesso di queste capacità, tuttavia, c’è però una grande varietà interindividuale e chi si dedica agli altri merita la nostra gratitudine, spiega Joan Halifax, riferendosi a tutti coloro che aiutano i sofferenti di ogni genere, siano malati terminali, chi è nelle carceri, chi subisce catastrofi naturali e climatiche, chi fugge dalla guerra. «Le persone non lasciano la propria casa o il proprio paese se non sono in condizioni di sofferenza. Non è l’inseguire un sogno, il sogno americano o il sogno europeo, è la sofferenza che guida le persone, dobbiamo ricordarlo. Dobbiamo essere grati a chi è socialmente impegnato, chi fa qualcosa per aiutare, chi fa sentire la propria voce e manifesta, chi sta accanto a un paziente sul letto di morte, chi da supporto a una persona che è sotto le bombe o che arriva su un barcone in cerca rifugio. Tutti cerchiamo rifugio. Tutti noi abbiamo l’opportunità di fornirlo».

A chi giova

Secondo quanto insegnano la psicologia sociale e le neuroscienze, sono molti a beneficiare della compassione. Spiega Halifax: «Chi la riceve e ne ha beneficio diretto; chi la osserva e viene spesso invogliato a realizzarla nella propria vita; le società che la valorizzano e ne supportano la realizzazione nell’educazione e nelle istituzioni facendone un elemento essenziale; infine, chi la realizza, che ne sperimenta tutti i benefici, anche gli effetti fisiologici».

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Foto di Jordan Ling su Unsplash

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