Welfare

La vita di Famara, alla conquista di lavoro e dignità

Arrivato dal Gambia nel 2014 dopo un traumatico viaggio migratorio, è stato tra i beneficiari del progetto Safe In di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità e JPMorgan Chase Foundation, che ha avviato all'attività lavorativa 116 titolari di protezione internazionale. Oggi Famara Sanyang ha un contratto a tempo indeterminato in una botique in centro a Milano e lotta contro i pregiudizi alla ricerca di una casa in affitto

di Daniele Biella

“Stai tranquillo, non è il tuo Paese d’origine: troverai difficoltà ma continua a comportarti bene e vedrai che le cose miglioreranno”. Le parole di una mamma valgono oro. Soprattutto quando le cose non vanno per il verso giusto, e hai bisogno di conforto. Quando incontriamo Famara Sanyanga, 26 anni compiuti lo scorso agosto, lui sta passando un buon periodo: un lavoro con un contratto a tempo indeterminato, una stanza privata in un dormitorio che condivide con un’altra persona, l’attesa – con estrema pazienza – di un documento che finalmente non sia un permesso provvisorio per rimanere a Milano ma che diventi qualcosa di più duraturo. Ma fino a non molto tempo fa non era così: arrivato in Italia nel febbraio 2014 dal Gambia via mare dopo mesi di un difficile e traumatico viaggio migratorio, ha vissuto due anni in un centro d’accoglienza per poi finire in strada e dormire sui pullman la notte senza prospettive per il proprio futuro.

La ruota della speranza, per Famara, è ricominciata a girare proprio grazie al lavoro. E a un incontro speciale, che per lui come per altre decine di persone richiedenti asilo o già rifugiate ha significato potere ricominciare a progettarsi una vita: l’incontro con il progetto Safe In di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità e JPMorgan Chase Foundation. Che nel caso di Famara ha avuto le prime sembianze di Laura Ciardiello, responsabile di progetto di Fondazione Adecco, incontrata ai bordi di un campo di calcio quando il ragazzo gambiano militava per la squadra ‘Rifugiati e migranti’ del centro sportivo Vismara. “Hai un curriculum?”, gli chiese la donna. “Era la prima volta che sentivo quella parola”, ci dice Famara con un leggero sorriso, che a ben vedere fa parte anch’esso del bagaglio delle sue competenze trasversali: la spontaneità, così come l’onestà e il rispetto delle persone, sono tra le caratteristiche che hanno permesso al ragazzo di essere selezionato nel team di beneficiari di Safe In. “Ho visto fin da subito in Famara uno spirito adattabile che però ha in sé molta determinazione”, spiega Laura Ciardiello responsabile di Safe In, progetto che in due anni di attività ha avviato verso l’autonomia lavorativa 159 persone che hanno richiesto protezione internazionale, con un placement al 70%.

È grazie all’aggancio con Safe In che la vita di Famara si sarebbe trasformata in meglio nel giro di poche settimane. “Vieni a fare un percorso di orientamento?”, propose Laura a Famara quella volta a Casa Jannacci. Famara accettò, e dopo poco tempo si trovò in un corso formativo del progetto, gestito da Fondazione Adecco partner di Safe In, formazione a cui ne fece seguito un’altra, come addetto di vendita. E la sua successiva prima chiamata lavorativa: “ero in una nota catena di fast food, ci sono rimasto sei mesi con una borsa lavoro”, ricorda Famara. “Non c’erano, in seguito, le condizioni per rimanere e quindi ho cercato altro”. Su indicazione dell’equipe di Safe In, il ragazzo ha mandato il cv a una nota catena di abbigliamento che cercava commessi: “mi hanno chiamato, sono rimasto lì tre mesi poi il contratto si è chiuso”. Da allora ha iniziato a girare per Milano la mattina presto con uno zaino in spalla pieno di curriculum. Fino all’ultima, positiva svolta, quando Laura ha ritrovato Famara proprio a Casa Jannacci, il dormitorio di Viale Ortles. “Proprio Laura mi ha chiesto di co-condurre un corso di formazione alle persone straniere arrivate da poco in Italia sui comportamenti da tenere sul luogo di lavoro, partendo dalle differenze anche culturali tra il ruolo di addetto vendite in un Paese europeo o in un altro continente”, continua Famara. Anche lui stesso all’inizio ha avuto difficoltà, perché c’erano alcune abitudini completamente diverse dalla sua madrepatria. “Per esempio da dove vengo non si usa darsi la mano per salutarci, e nemmeno guardare negli occhi il cliente perché viene considerata una mancanza di rispetto: ho dovuto imparare che invece in Italia è diverso”.

Famara ha messo a frutto le esperienze lavorative precedenti per fare domanda a un nuovo negozio che stava aprendo in centro, della catena giapponese Uniqlo. La segnalazione, anche in questo caso, il ragazzo l’ha avuta dai responsabili di Safe In. “Ho fatto il colloquio e mi hanno preso. Dopo un breve periodo di prova mi hanno assunto a tempo indeterminato”, spiega Famara. Lavora su turni, 40-42 ore alla settimana, in un team internazionale dove le parole d’ordine sono “rispettare gli altri e le diversità culturali di ciascuno”. Grazie alla buona busta paga, ora il ragazzo gambiano può cercare affitto in un appartamento normale, con la prospettiva di lasciare il dormitorio. “Non è facile la ricerca, ho già vissuto la difficoltà come straniero di essere giudicato con pregiudizi”, sottolinea. E ci racconta un aneddoto relativo al giorno prima del nostro incontro: “al telefono una persona di un’agenzia di case in affitto, dopo avere sentito dall’accento che non ero italiano, ha riattaccato. Gli ho scritto un messaggio accusandolo di avere avuto un comportamento razzista. Allora mi ha richiamato, e abbiamo avuto un incontro chiarificatore nella sede dell’agenzia”. Com’è andata? “Bene, perché ha riconosciuto l’errore. Si è giustificato dicendo di avere avuto problemi in passato, ma gli ho ribadito che ogni persona è diversa”. Ora Famara è in attesa di una chiamata che spera arriverà a breve con qualche proposta di alloggio. “Il rispetto è una cosa importante, io non ho mai fatto nulla di male nella mia vita, nemmeno nei momenti difficili in cui non avevo niente e dormivo sui pullman”, rimarca.

I valori che Famara ha fatto propri sono quelli di un’infanzia difficile ma dove l’educazione ha svolto un ruolo centrale: nato in una famiglia con condizioni economiche modeste, unico figlio maschio con due sorelle più grandi che hanno perso prematuramente il padre per malattia, ha comunque potuto studiare fin da piccolo. Riconosciuto come bambino con molte potenzialità, dai 10 anni è stato inviato a studiare anche nel fine settimana in una scuola religiosa (musulmana, la religione di famiglia). La madre, indigente, ha poi affidato Famara al responsabile di questa scuola, che in seguito è stato prima perseguitato dal dittatore allora al potere, poi addirittura sequestrato senza ritorno. Tutti i suoi allievi iniziarono a essere perseguitati anch’essi e fu allora che il ragazzo gambiano, con un amico, decise di scappare dal Paese. “Siamo rimasti nel vicino Senegal per tre mesi, ma senza prospettive. Allora siamo passati prima in Mali poi in Niger, cinque mesi in tutto, da dove abbiamo raggiunto la Libia alla ricerca di un lavoro che ci sostenesse”, racconta. Da una città libica all’altra, per 9 mesi è finito nella rete di sfruttamento lavorativo dei trafficanti di esseri umani, lavorando come imbianchino e cercando di nascondersi dai criminali comuni. “In strada, per derubarmi di tutto, una volta dei ragazzini mi hanno sparato, ferendomi di striscio a una coscia”, aggiunge. “Allora abbiamo raccolto ogni soldo che riuscivamo a ottenere per prendere il gommone verso l’Europa, unica via di fuga da lì, e siamo partiti”. Un viaggio infernale, ricorda ancora il ragazzo (che allora aveva 20 anni), “dove almeno 50 delle 140 persone a bordo sono morte annegate dopo il naufragio. Io ho nuotato per circa mezz’ora prima di essere miracolosamente salvato da una nave petroliera giapponese che, dopo diversi giorni, ci ha fatto sbarcare in Sicilia. Da lì, siamo finiti in un centro di accoglienza a Milano. Ora il mio amico lavora a Malta, io continuo la mia vita qui”, conclude Famara, con un altro, significativo, accenno di sorriso.

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