Cultura

“La vita dentro la morte” secondo Johnny Dotti

È possibile sperare all’epoca del coronavirus? Generare un mondo diverso, come tutti si auspicavano all’inizio della pandemia? Johnny Dotti, pedagogista e imprenditore sociale, prova a rispondere nel libretto “La vita dentro la morte”, appena pubblicato da Emi. E in questa intervista.

di Elisa Bertoli

“Non cercare risposte ora: nessuno te le potrà dare, perché non sei in grado di viverle. Di questo infatti si tratta: di vivere ogni cosa. Adesso vivi i problemi; vivendo i problemi, forse un lontano domani, a poco a poco, senza accorgertene, scoprirai le risposte”. Con questo esergo di Rainer Maria Rilke si apre La vita dentro la morte, agile libretto scritto da Johnny Dotti per Emi (64 pagine, 5 euro). In uscita in questi giorni, è un prezioso contributo alla “ricostruzione” da parte del pedagogista e imprenditore sociale. Che, da Bergamo, invita ad “accogliere l’urlo di morte che ha circondato le giornate”, “custodire le domande piene di lacrime e sgomento che la realtà ci mette davanti”. E si chiede: "Sapremo non rimuovere questo tempo e spazio di silenzio? Per poi trasformarlo in silenzio profondo, fecondo, capace di ospitare e generare nuove parole e di rigenerarne di antiche. O ci faremo di nuovo travolgere dalla banalità di bla bla estenuanti e insignificanti?”. Perché “le migliaia di persone che sono morte, sono morte per noi. Perché noi siamo pienamente ciò che siamo chiamati ad essere”. Abbiamo rivolto alcune domande a Johnny Dotti, per provare a “cercare insieme” a lui “una pratica e una teoria che non sfuggano troppo velocemente a ciò che la realtà ci ha svelato".


Cosa vuol dire "sperare in un tempo e in uno spazio di morte" come questo?
Credo voglia dire attraversarlo, non fuggire. Ascoltarlo, persino benedirlo: ogni disgrazia contiene una grazia. Certamente non è proiettare in un futuro astratto la speranza: la speranza nasce sempre nella profondità dell'oggi e si attiva sempre nell’oggi, altrimenti è una proiezione illusoria.

In che senso, secondo lei, "qualsiasi progetto di ricostruzione deve poggiare su presupposti di trasformazione interiore"?
Un progetto, che significa gettare in avanti, immaginare qualcosa che verrà, è sempre un'ipotesi trasformativa, un’ipotesi di cambiamento. Credo che oggi sia il tempo di ricomporre l'interno con l'esterno, l'alto col basso, il dentro col fuori. Veniamo da un tempo separativo, dove si è separato tutto in nome della funzione e della specializzazione. In questo senso il compito della trasformazione interiore per l’uomo occidentale credo sia il più importante e urgente. La tecnologia lo proietta tutto al di fuori, all'esterno: se noi non accompagneremo quest’esterno con una consapevolezza interiore, un ascolto interiore, credo che finiremo nell’anomia e nell’alienazione.

"Perché il futuro non sia una proiezione posticcia del passato", lei percepisce la necessità di "azioni simboliche". Cioè?
Le azioni simboliche sono azioni concrete. Il simbolo, symballo, che è il contrario del diavolo, diaballo, tiene insieme le dimensioni della realtà: le dimensioni sensibili, quelle intellettive, quelle spirituali. Abbiamo bisogno di rimettere in armonia i sensi con l'intelletto e con lo spirito. Lo spirito va completamente reintegrato all'interno della realtà, che invece l’ha espulso in azioni o pensieri privati. Queste tre dimensioni non sono né singolari né plurali: sono le tre dimensioni della realtà in cui l'uomo è pienamente inserito.

Mai quanto in questi mesi ciascuno di noi ha vissuto la dimensione della casa. Lei da tempo promuove "un pensiero tradizionale nuovo dell’abitare". Perché e in che modo può prendere forma?
Perché l'abitare è stato ridotto alla forma dell'appartamento e dell'alloggio, le due forme più distanti dell'abitare umano, funzionali al sistema produttivo capitalista che è standardizzato e parcellizzato. Anche l'uomo ha subìto questo tipo di sistema. Invece l’abitare vuol dire esserci, cioè prendersi cura della propria esistenza e dell'esistenza degli altri. La casa non è nient'altro che questo simbolo concreto del prenderci cura di noi, di tutti noi, e di noi e degli altri: la casa delle finestre e delle porte, degli angoli intimi e degli angoli di accoglienza, degli angoli funzionali e degli angoli legati invece all'incontro, alla relazione. Credo ci sia un grande spazio per riaprire concretamente il tempo dell'abitare umano.

In queste settimane in cui si è riaperto il dibattito su pubblico e privato, lei propone la terza via del "comune". Cosa significa?
Non credo sia una terza via. Credo che le due polarità restino il privato e il pubblico, due estremi che tuttavia non possono assorbire completamente le forme della vita. Il rapporto tra queste due polarità – che alla fine è il rapporto che nel linguaggio c'è tra le prime tre persone singolari e le prime tre persone plurali – è un rapporto molto plurale, fatto di tantissime forme. Ma noi negli ultimi trecento anni l'abbiamo semplificato, funzionalizzato, entificato solo in forme pubbliche e forme private: stato e mercato capitalista, come ultima riduzione. Io credo invece che le forme siano tantissime. Alla fine dello scorso secolo abbiamo visto nascere ad esempio forme che abbiamo poi chiamato terzo settore, ma che sono storicamente sempre state presenti nella storia umana. Credo che i mix, in particolare rispetto a beni che sono considerati appunto comuni – pensiamo all'acqua, ai trasporti, all'arte – abbiano bisogno di molta più creatività che non la divisione tra stato e mercato.

Un'altra trasformazione da lei auspicata è quella del capitalismo. Ma è davvero possibile "passare dal produrre al generare"?
Credo molto realisticamente che nell'arco della mia vita non vedrò la fine del capitalismo, come invece mi è capitato di vedere la fine storica delle forme del comunismo. Credo che però il capitalismo avrà prima o poi la sua fine e che forse farò in tempo a vedere in parte il superamento della visione che l’ha accompagnato negli ultimi cento anni e che sostiene tutto l'immaginario mitologico dell'attuale economia: la visione di un’iperproduzione accompagnata poi da un iperconsumo. Certo, il superamento non è per forza in positivo: quelle forme possono essere ulteriormente accelerate e rese quasi più asettiche e paradossalmente meno fastidiose, ma più morfinizzanti, dalla tecnologia. Ma l'introduzione di elementi come ad esempio il pensiero generativo può aprire a forme di vita e quindi anche di produzione e di consumo, ma non solo di produzione e di consumo, per cui noi possiamo godere della vita attraverso la contribuzione delle nostre azioni e non solo attraverso l'elemento separativo tra produrre e consumare: ci possono essere spazi in cui l’elemento monetario non è così importante, dove il rapporto tra patrimonio – cioè ciò che noi immaginiamo di trasmettere agli altri – e costruzione di bene economico possa diventare molto più pacificato e più a beneficio di tutti.

Mai come in questo tempo la tecnologia si è sostituita ai sensi. Come fare, in concreto, perché invece li "accompagni", senza sostituirsi ad essi?
Io non credo che la tecnologia abbia sostituito i sensi. Credo che la tecnologia sia questo connubio tra techne – e la techne è sempre un allungamento dei sensi, del nostro corpo – e logos – in questo caso una riduzione del logos ad algoritmo, contabilità, quantità. Credo ci sia bisogno di mettere accanto alla tecnologia anche una tecnosofia e una tecnocultura: non credo che la partita la si risolva solo alimentando esperienze ulteriormente sensitive, bensì che ci sia bisogno di recuperare anche un’ampiezza maggiore del logos e della sapienza che viene dallo spirito. Allora torneremo anche ad avere un'idea più equilibrata dei sensi e del nostro corpo. Certamente, dal punto di vista educativo, penso che i ragazzi vadano educati a essere emancipati dalla tecnologia, cioè a essere capaci di farne senza. Questo li renderà molto più intelligenti, sensibili e attenti dal punto di vista spirituale nell'uso degli strumenti.

Comunità e spiritualità sono le sue parole chiave per il futuro. Come possono essere concretizzate?
Comunità e spiritualità sono due termini e parole tradizionali. Tutte e due, come tutte le parole umane, ambivalenti.
Noi abbiamo bisogno di esperienze di comunità che non siano esperienze di immunità – cioè di chiusura e di ipertrofia di identità presunte – ma siano il riconoscimento dell’affezione umana, che ha sempre bisogno di essere riconosciuta anche viso a viso dentro a linguaggi che facciano fare un’esperienza del rapporto con gli altri profonda, significativa e rassicurante. So benissimo che questo è anche molto rischioso, ma l'uomo non può fare a meno della comunità: non basta la società delle regole o la società delle funzioni. La spiritualità è quella che i medioevali chiamavano “il terzo occhio” e che noi via via abbiamo rubricato in una specie di privatismo consolatorio di natura pseudomistica. Ma la spiritualità è l'occhio della libertà, dell'amore e della trascendenza. Sono entrambe cose molte concrete. Se uno ha un figlio o ha un genitore anziano percepisce immediatamente il valore della comunità e della spiritualità. Bisogna provare a guardare in faccia ai propri figli e ai propri genitori anziani.


La vita dentro la morte” di Johnny Dotti è disponibile nel sito web di EMI Editrice Missionaria Italiana

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