Mondo
La vita dei bambini Rohingya, rifugiati in Bangladesh
Sono oltre 520mila i bambini rohingya che vivono nei campi profughi sovraffollati e negli insediamenti informali in Bangladesh, dopo l'esodo di massa dal Myanmar, iniziato lo scorso agosto. È per offrire aiuti umanitari ai rifugiati che MOAS ha stabilito due Aid Station, diventate negli ultimi mesi dei veri e propri centri di aggregazione per i profughi e per le comunità locali
È una mattina di sole quando, durante un giro per gli insediamenti e i campi profughi Rohingya in Bangladesh, mi imbatto in una scena che mi ha colpita profondamente per la sua semplicità e la sua bellezza. Mi trovavo in un campo di riso subito dopo la mietitura, tutto intorno un paesaggio giallo, arido e quasi brullo. Sentivo la durezza del terreno sotto le mie scarpe, quando d’improvviso mi trovo davanti un gruppo di bambini probabilmente fra i 6 e i 10 anni che giocano a pallone. La maggior parte di loro non ha vestiti né scarpe, il portiere sta lì in mezzo a una porta immaginaria senza tuta, scarpe sportive o guantoni per parare i lanci in porta. Era lì, nudo, ma vestito dalla passione e dalla felicità di poter giocare con un pallone quasi sgonfio di fronte ad un pubblico improvvisato.
Ridono e fanno chiasso come tutti i bambini del mondo che si rincorrono per gioco, sognando di diventare calciatori famosi ed imbattibili. Per un attimo riesco a dimenticare dove mi trovo e perché, per un attimo la terrificante crisi umanitaria attualmente in corso a causa dell’esodo degli oltre 655.500 mila Rohingya dal Myanmar al Bangladesh sembra solo un vago ricordo. Potremmo essere ovunque: in un parco o in un campetto di calcio con un allenatore che insegna loro le tecniche del gioco o ancora in una scuola durante l’ora di educazione fisica.
Eppure, siamo in un insediamento di Rohingya appena sopravvissuti a violenze e abusi così gravi da essere stati connotati come “un esempio da manuale di pulizia etnica” da parte delle Nazioni Unite. Eppure, loro sono lì che ridono e giocano come se, correndo dietro al pallone, svanissero tutti i brutti ricordi e si cancellasse l’orrore della fuga. Non hanno vestiti o scarpe e i loro piedi si muovono agili sul terreno duro, eppure sono felici, come solo i bambini sanno essere, con quella spensieratezza che le incombenze dell’età adulta smorzano.
In un luogo dove manca tutto, dove ricevere un’aspirina può essere difficile, dove il rischio di malattie trasmissibili è una continua minaccia, un pallone diventa il più prezioso dei giochi oltre che un motivo in più per sorridere ed esercitare la fantasia. Proprio la fantasia è la protagonista della seconda scena che vedo: due sorelline si tengono per mano e nel frattempo raccolgono tappi di plastica colorata intorno. Ridono e si contendono quei tappi che mi ricordano tanto i giochi di un tempo che oggi, fra videogiochi e tecnologie varie, sembrano appartenere ad un’epoca lontanissima. Sono sempre meno oggi i bambini che giocano per strada e sempre di più quelli che scelgono di passare il tempo libero con un tablet o uno smartphone.
Quei sorrisi e quell’ingenuità per me e l’intero team MOAS sono la più grande ricompensa, oltre al più grande incoraggiamento a proseguire la nostra missione medico-umanitaria. Dall’arrivo di MOAS in Sud-Est asiatico lo scorso settembre abbiamo consegnato 40 tonnellate di aiuti alimentari e umanitari al governo del Bangladesh per aiutarlo a fronteggiare questo esodo biblico che sta mettendo a dura prova le risorse di un intero paese. Dal nostro arrivo abbiamo concentrato competenze, risorse ed energia per prestare assistenza medico-sanitaria di qualità e gratuita ai Rohingya sopravvissuti alle violenze esacerbatesi a partire dallo scorso 25 Agosto. Inoltre, prestiamo soccorso in caso d’emergenza anche ai bengalesi delle comunità intorno alle Aid Station che continuano a dimostrare solidarietà e fratellanza nei confronti dei Rohingya che arrivano senza sosta.
Ma quello che mi rende estremamente felice è che le nostre MOAS Aid Station, oltre ad essere delle unità mediche dotate di farmacia per poter garantire le cure necessarie a chi ne ha bisogno, sono diventate un luogo di aggregazione, di incontro e di ristoro per molte delle persone che vengono a trovarci. Così, nei momenti di stanchezza o sconforto per le tante cose da fare, ci ricordiamo tutti che dei bambini scampati per miracolo a massacri terribili riescono ancora a ridere, a giocare spensieratamente, a usare la fantasia per colmare la mancanza di vestiti, giocattoli o altri costosi apparecchi tecnologici.
Siamo felici di continuare a mantenere accesa la speranza e custodire il prezioso dono dell’infanzia in una comunità che ha davvero bisogno di tutto.
L'autrice è Co-Fondatrice e Direttrice MOAS
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