Famiglia

La vera questione: quale destino per le vite di scarto?

Il mio no. Parla Marco Revelli

di Giuseppe Frangi

La storia di Ghina è arrivata per prima sulla sua mail. Naturale che fosse così, visto che Marco Revelli al destino (più che alla causa) dei rom ha legato molto del proprio impegno intellettuale. Un libro, tanti interventi, tra cui uno bellissimo pubblicato da Communitas (numero 5/2005 ). «Provo un senso di desolazione», dice. «Quello che sta accadendo in Italia è in una perfetta ?logica da guerra?».

Vita: Qual è il suo giudizio sul modus operandi del governo?
Marco Revelli: È una aberrazione che dimostra il fallimento della politica stessa. Intanto giustizia vuole che si espelle il responsabile di un comportamento criminale, non tutta la sua famiglia. E anche ammettendo di espellere tutto il gruppo, perché distruggere il container? È un comportamento da truppe di occupazione in territorio nemico. Nel momento in cui un individuo vede una situazione malavitosa, come farà a denunciarla, se poi rischia di esporsi a una rappresaglia collettiva?

Vita: Quali le buone pratiche possibili?
Revelli: La gestione di queste contraddizioni spetterebbe alla buona politica, che è organizzazione della convivenza, ma mi rendo conto che sul terreno politico è impossibile. La politica oggi non è organizzazione della convivenza, ma organizzazione del conflitto. Questo perché ormai la politica vive di rappresentazioni simboliche e dimentica le vite, i corpi, la dimensione concreta del vivere. Trasforma ogni fatto e ogni persona in un simbolo da spendere nel proprio campo, come risorsa contro l?avversario, in una logica dettata dalla mediatizzazione.

Vita: Da dove cominciare?
Revelli: Dal quantificare le risorse per bonificare alcune situazioni, perché bonificare equivale a investire: sulle aree degradate, sulle periferie, sul non lasciare stazioni della metropolitana sperdute nel deserto. Le risorse necessarie sono molte, certo, ma è anche vero che oggi moltissime risorse vanno a finanziare operazioni di immagine. Il rumeno accusato dell?omicidio della Reggiani lavorava per montare i palchi del Festival del cinema: è paradossale.

Vita: Che ne pensa del patto di legalità di don Colmegna?
Revelli: Ha un grande merito: aprire un canale di comunicazione, costruire un terreno comune. È una buona idea per affrontare l?emergenza, perché smonta una macchina di produzione di odio: a Milano, nel contesto in cui è stato usato, era sacrosanto. Non lo proporrei però come strumento universale, perché sarebbe inquietante chiedere a un intero gruppo etnico di firmare una cosa del genere. È chiaro che sullo sfondo di tutte le reazioni di questi giorni c?è un pregiudizio etnico: la tendenza a delinquere dei rom. A Roma per esempio, in via dei Gordiani, il patto è stato utilizzato per la distruzione selettiva dei container in base alla decisione di una delle parti, la più forte, che ha impugnato il patto, stabilito la sua violazione e comminato una sanzione.

Vita: La politica finisce sempre lì…
Revelli: Il vero problema che la politica deve porsi è cosa fare delle vite di scarto. La politica ha aderito a un mondo in cui le vite di scarto non sono una eccezione ma sono fisiologiche, prodotte in larga scala. La politica cosa pensa di farne? Quando va a spianare le baraccopoli, ci deve dire cosa intende fare dei corpi che ci vivono dentro. Ci dicono di allontanarli, di metterli fuori, ma fuori dove? Chi risponde?


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