Economia
La vecchia economia ha già vinto le elezioni
Al voto del 25 settembre i partiti italiani si presentano più che mai uniti. Non è un refuso. In nessun programma elettorale c’è traccia dell’economia sociale: assente, ignorata, fuori dal radar. Qualche riferimento al Terzo settore naturalmente non manca. Perché negarsi dei buoni propositi quando sono poco impegnativi? Perché impegnarsi solo per misure che incrementeranno il“debito cattivo”?
Alle elezioni del 25 settembre i partiti italiani si presentano più che mai uniti. Non è un refuso. In nessun programma elettorale c’è traccia dell’economia sociale: assente, ignorata, fuori dal radar. Qualche riferimento al Terzo settore naturalmente non manca. Perché negarsi dei buoni propositi quando sono poco impegnativi? Qui e lì quindi si trovano (pochi) riferimenti al ruolo del non profit, alla insostituibile funzione sociale che svolge. Ma l’ambito è perlopiù quello di una visione tradizionale che concepisce il Terzo settore come supplenza del pubblico, che entra in scena quando si tratta di far fronte a povertà e marginalità. Più in là non si va. La cultura dei partiti italiani resta ferma ad una dicotomia invalicabile: da un lato i soggetti che producono e fanno economia, dall’altro le organizzazioni sociali che intervengono per riparare i guasti e cercare qualche rimedio ai fallimenti del mercato.
Questo modo di vedere le cose ignora la realtà. È un’ulteriore conferma — se ce ne fosse bisogno — della povertà culturale della politica nel nostro Paese, e della distanza che la separa dal mondo al quale vorrebbe rivolgersi. Se fosse davvero capace di leggere quel che si muove nel profondo della società italiana, la proposta politica dei partiti non ignorerebbe che il Terzo settore da molti anni non si occupa più soltanto di marginalità e disagio sociale, e non è affatto un fenomeno di nicchia. È un settore che coinvolge milioni di persone (quasi sette, tra dipendenti e volontari) e che si è progressivamente ampliato anche ad altri temi e bisogni — dalla cultura alla formazione, dalla rigenerazione urbana all’agricoltura — sulla spinta di domande che chiedono soluzioni creative, fuori dai soliti schemi dell’offerta pubblica o dell’impresa finalizzata al lucro. Il raggio di azione è cambiato perché si sono moltiplicate, e sono divenute sempre più articolate e complesse, le domande di intervento e di cura espresse dalla società. Domande per rispondere alle quali, più che la logica del profitto, serve la mobilitazione di risorse di collaborazione e cooperazione, più adatte ad affrontare problemi di interesse collettivo. È su questo che dovrebbe misurarsi una politica economica al passo con il cambiamento sociale.
Di tutto questo nei programmi elettorali non si parla. Malgrado il ruolo dell’economia sociale sia sempre più importante nelle politiche di molti altri Paesi e delle istituzioni internazionali, incluse quelle europee. Ma quel che rende questa lacuna ancora più macroscopica è quanto emerge dall’analisi del contenuto delle proposte economiche che i partiti avanzano. Quali sono le idee economiche forti che dovrebbero compensare la trascuratezza nei confronti dell’economia sociale? Per un verso, si tratta di affermazioni scontate, come quella della centralità dell’impresa, che non sembrano rendersi conto di quanto lo scenario sia mutato e di come le organizzazioni imprenditoriali oggi abbiano trasformato la propria natura sviluppando nuove esigenze e sensibilità. Si pensi solo a quanto la diffusione di modelli innovativi di produzione e consumo (in parte, grazie anche al Terzo settore) abbia finito per influenzare l’inclinazione alla responsabilità sociale e alla sostenibilità delle imprese tradizionali. Si ha l’impressione però che nel confronto politico prevalga una visione assai poco aggiornata delle imprese e delle loro nuove priorità.
Su questa scarsa conoscenza si innesta un secondo tema che domina l’approccio economico alle prossime elezioni: la tendenza a ricondurre ogni proposta politica ad un aumento del debito (quello cattivo, per dirla con Draghi). Scorrendo i punti principali dei vari programmi si trova una rincorsa alla proposta più attraente in termini di sgravi fiscali, tagli di imposte, agevolazioni e incentivi, fondi e finanziamenti, esenzioni e premialità. Dalla promessa di flat tax del centrodestra alla dote per i diciottenni del Pd, dal maxi-condono fiscale della Lega all’aumento delle pensioni minime di Forza Italia, dal potenziamento della cassa integrazione per i professionisti proposto dal terzo polo ai nuovi superbonus sostenuti dai Cinque Stelle.
Certo sono solo promesse. Ma resta il fatto che sono indice di una visione di politica economica che mira ad ottenere consenso più che a generare idee per favorire davvero lo sviluppo. Il paradosso è che tutto questo “debito cattivo” prima o poi finirà per tradursi nella necessità di una stretta e, come il passato insegna, un’altra stagione di austerità significherà riduzione dei servizi e aumento dei bisogni sociali insoddisfatti. Allora, il Terzo settore sarà chiamato a farsi carico di nuove domande, come nelle crisi precedenti. Ma allora, perché non far entrare l’economia sociale nell’orizzonte delle politiche economiche già ora, senza aspettare la prossima crisi?
Foto: Ag. Sintesi
*segretario generale di Fondazione Italia Sociale
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