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La Turchia si ritira: a perdere sono i diritti umani, non solo quelli delle donne

«Questo ritiro rappresenta un precedente pericoloso anche a causa del diffondersi sempre più dilagante di forze reazionarie che considerano i diritti delle donne un pericolo per la struttura patriarcale e fondata sul potere maschile della società», spiega Antonella Veltri, presidente di donne in rete contro la violenza. «La decisione di Erdoğan è un atto gravissimo»

di Anna Spena

La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, conosciuta come convenzione di Istanbul, è stata approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011. Il trattato nasce con l’obiettivo di prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime ed impedire l’impunità dei colpevoli. È stato firmato da 32 paesi e il 12 marzo 2012 la Turchia è diventata il primo paese a ratificare la Convenzione. Ma lo scorso 20 marzo, a nove anni dalla ratifica, il presidente turco Erdoğan revoca la propria partecipazione alla convenzione. Perché? «Quello di Erdoğan è un atto gravissimo che espone nella sua drammaticità quanto sia cambiato il clima nei paesi del Consiglio d’Europa in 10 anni a questa parte», spiega Antonella Veltri, presidente di donne in rete contro la violenza.

La Turchia è stato il primo Paese a firmare ma ha annunciato il ritiro. Che significa questo gesto per la lotta contro la violenza nei confronti delle donne?
La decisione della Turchia, o meglio del suo presidente, di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul è un atto gravissimo che espone nella sua drammaticità quanto sia cambiato il clima nei paesi del Consiglio d’Europa in 10 anni a questa parte. Nel 2011 la Convenzione di Istanbul venne salutata unanimemente come una grande conquista, il segnale che finalmente anche i governi avevano preso sul serio la necessità di intervenire per prevenire a contrastare la violenza maschile contro le donne, riconoscendola come un fenomeno strutturale radicato nella cultura patriarcale dominante, incompatibile con i principi costituzionali di uguaglianza tra uomini e donne scritti in tutte le costituzioni. La sua applicazione – anche nei paesi che l’hanno ratificata come l’Italia – resta però incompleta, come ha dimostrato l’ampio rapporto del Grevio sull’Italia pubblicato a gennaio 2020. E questo certamente non aiuta a dimostrare l’impatto enorme che è destinata ad avere se applicata pienamente, un impatto – in termini di contenimento della violenza maschile e di migliore supporto alle donne che vi si sottraggono – che ne farebbe uno strumento incontestabile. In compenso, purtroppo, la scelta della Turchia rafforza quegli schieramenti politici reazionari, di estrema destra, alleati con i movimenti pro-vita, che non tollerano la libertà di scelta delle donne e l’affermazione di una effettiva uguaglianza di diritti e di opportunità per mettere fine al dominio patriarcale.

Perché questa scelta?
L’impianto della Convenzione di Istanbul è molto innovativo. Riflette quanto i movimenti delle donne, e in particolare i centri antiviolenza, hanno evidenziato da decenni rispetto alla violenza maschile, ovvero che essa è il frutto di un contesto sociale e culturale patriarcale, che discrimina le donne in ogni campo. E se da un lato la Convenzione definisce 4 aree – le cosiddette 4 P – su cui intervenire, ovvero prevenzione, punizione dei colpevoli, protezione e supporto alle vittime, politiche integrate – dall’altro impone agli stati di intervenire su stereotipi e pregiudizi sessisti per modificare i ruoli di genere tradizionali – che sono appunto discriminanti nei confronti delle donne – ed equilibrare relazioni di potere che vedono le donne troppo spesso in posizione subordinata all’uomo. È evidente che questo impianto contrasta con la visione sempre più tradizionalista – e dunque patriarcale – che il partito al potere in Turchia, ma anche forze politiche di destra e estrema destra sempre più aggressive in tutta Europa, portano avanti. In Italia ne abbiamo avuto un assaggio con il Ddl Pillon, contro il quale abbiamo contribuito a creare un vastissimo movimento d’opinione e di piazza, che conteneva misure in aperto contrasto a quanto disposto dalla Convenzione di Istanbul, che vieta la mediazione familiare nei processi di separazione e affidamento dei figli quando ci sono situazioni di violenza. Sottrarsi alla Convenzione di Istanbul significa sottrarsi all’imposizione di cambiare le norme e non solo non voler riconoscere che la violenza maschile è un fenomeno strutturale, ma anche che le condotte violente costituiscono dei reati.

Quali potrebbero essere le ripercussioni anche sugli altri Paesi?
È evidente che la decisione del presidente turco costituisce per queste forze politiche un esempio e un precedente a cui riferirsi per scelte analoghe. E ci sono Paesi europei – penso alla Polonia, alla Croazia, all’Ungheria – dove gli attacchi contro le donne e la loro autodeterminazione sono già molto forti e arrivano direttamente dalle istituzioni. Posso dire, senza timore di essere smentita, che le donne non accetteranno queste decisioni senza lottare, e che il movimento femminista – che fin dalle sue origini è stato subito un movimento transnazionale e globale – oggi più che mai scenderà in campo per riaffermare diritti conquistati al prezzo di grandi lotte sui quali non faremo mai un passo indietro. In Turchia sta già accadendo. Sabato migliaia di manifestati sono scesi in piazza e i sit-it continueranno. Ci aspettiamo che anche le istituzioni – in Italia e in Europa – facciano sentire la loro voce, perché quanto successo in Turchia mina alla base il riconoscimento e l’affermazione dei diritti umani, delle donne e di tutti.

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