Migranti
La Trieste che non si arrende all’indifferenza
Nel capoluogo giuliano sono molti i cittadini che denunciano le condizioni di vita di chi arriva dalla rotta balcanica e non trova posto nel sistema di accoglienza, portando solidarietà, aiuti materiali e vicinanza umana
A Trieste i migranti – anche richiedenti asilo – dormono ancora all’addiaccio, in edifici fatiscenti come il silos accanto alla stazione dei treni. Arrivando in città, sembra di vivere due realtà distinte: quella delle persone che vivono la loro vita, vanno a lavorare o visitano il centro storico dopo essere sbarcate dalle navi da crociera e quella di chi lotta ogni giorno anche solo per riuscire a farsi una doccia o mangiare un pasto caldo.
Ma, a volte, questi mondi si incontrano. «La cosa più brutta è che sembra che nessuno veda queste persone», dice Francesco, 12 anni, che sabato scorso ha partecipato con la sua famiglia e alcuni amici a una giornata di conoscenza tra migranti e abitanti della città organizzata da una rete locale di attivisti. «Rimangono là, senza che nessuno li accolga». E ha ragione: a metà gennaio erano ancora 170 i richiedenti asilo – anche alcune famiglie con minori – che non trovavano spazio nel sistema di accoglienza e si dovevano accontentare di sistemazioni di fortuna. «È stato triste vedere quelle persone sotto le tende», continua, «c’erano sia giovani che anziani».
«Mi è stato proposto di partecipare alla giornata dai miei genitori», aggiunge il fratello maggiore, Giacomo, di 15 anni. «Una volta là mi sono chiesto perché non se ne parlasse di più e come potessero tutte queste persone vivere in condizioni così inumane. Mi ha colpito molto il fatto che fossero accampati in mezzo alla spazzatura; mi sono anche chiesto come facessero ad avere accesso ai servizi igienici e sanitari». Anche solo lavarsi o usare una toilette, infatti, è un problema per chi sta al silos: i bagni della stazione dei treni sono a pagamento e gli unici servizi accessibili sono quelli di un centro diurno nella poco distante via Udine, dove però ci sono solo due docce.
«Il fatto che ci siano delle persone che vivono in questo modo mi ha molto angosciata, fin da quando ne ho avuto notizia», racconta Federica Mancini, madre dei due ragazzi. «Vedere gli addobbi in piazza Unità e contemporaneamente sapere di questi ragazzi accampati lì vicino non mi faceva stare bene, ma non sapevo cosa fare. Per me è stato bellissimo quando è arrivato l’invito a partecipare alla giornata di incontro, perché era un modo di far sapere alle persone migranti che la città c’è e che noi cittadini non pensiamo che sia tutto normale. Volevo portargli un po’ di umanità, insomma». Ed è per questo che Mancini ha deciso di far partecipare all’iniziativa anche i suoi figli: per portare presenza e contatto oltre che aiuti materiali, come cibo o altri beni di prima necessità. «Quando sono arrivata, mi sono resa conto che è una situazione in cui non farei vivere nemmeno un animale da compagnia», commenta la donna, «piove dal tetto, c’è fango, ci sono rifiuti a terra. Lo sapevo, perché avevo presente le foto, ma vedere coi propri occhi è un’altra cosa. Penso che tutti loro hanno famiglia; penso ai loro genitori, che immaginano questi figli partiti da mesi, di cui non sanno più nulla. Io, se fossi loro madre, sarei contenta di sapere che c’è qualcuno che se ne prende cura».
Coloro che arrivano dalla rotta balcanica hanno spesso alle spalle storie di grande sofferenza, che è bene conoscere e condividere, per non cadere in banalizzazioni e pregiudizi. «Abbiamo parlato con un padre di famiglia afghano, che aveva tre figli, uno di nove, uno di sette e uno di quattro anni», ricorda Gianluca Novel, marito di Mancini. «Poi con un ragazzo pachistano di 27 anni. Ci ha raccontato che è partito dal suo Paese sei mesi fa; io sapevo che di solito la rotta balcanica è più lunga, mi sono fatto dire come aveva accorciato i tempi. Lui mi ha spiegato che aveva risparmiato e quindi non si è dovuto fermare a lavorare. Gli ho chiesto anche quale fosse stata la frontiera più difficile da oltrepassare, mi ha parlato del confine tra Turchia e Bulgaria, dove è stato vittima di violenze. È laureato in economia: vorrebbe andare all’università di Padova una volta entrato nel sistema di accoglienza. Gli ho detto, se ne aveva piacere, di tenere il mio numero e di accettare, se se la sentiva, un invito a pranzo o a cena da noi nei prossimi giorni».
Se lo scopo della giornata era far passare un messaggio all’amministrazione, tuttavia, l’uomo non è così sicuro che sia stato raggiunto. «Siamo arrivati il pomeriggio, ma abbiamo visto le persone che di solito vediamo alle manifestazioni, per quanto sia stata un’iniziativa fondamentale», conclude. «Mi ha fatto piacere che ci fossero due pullman da altre città italiane, anche se era un po’ strano che ci fossero cittadini da fuori ma da Trieste ci fossero pochi visi nuovi».
Foto in apertura dalla pagina Facebook di Linea d’ombra Odv, promotrice dell’iniziativa. Foto nel corpo dell’articolo di Tiziana Tomasoni, una delle cittadine intervenute alla giornata
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