C’è un sottile fil rouge che attraversa in gran parte il voto europeo di ieri. Dalla debacle del Parti Socialiste allavittoria del Fronte national di Le Pen in Francia, dall’affermazione dell’Ukip di Nigel Farage a quella greca di Tsipras e di Alba dorata, o a quella danese del Danish People Party, emerge evidente la voglia rabbiosa di cambiamento! Sembra quasi che il vecchio continente, dopo 6 anni di crisi economica, abbia voluto gridare il suo Basta!
Basta ad un modello economico e ad una visione d’Europa che, in nome del contenimento del rapporto Debito/Pil, sappia solo attuare Politiche fiscali lacrime e sangue (che acuiscono i già gravi bisogni sociali che la crisi ha fatto emergere) o tagli lineari alla Spesa pubblica che non si limitano a combattere gli sprechi ma riducono ai minimi termini il ruolo primario e fondamentale del Welfare State.
Come giustamente sottolineato da Riccardo Bonacina , anche l’Italia non è estranea a quest’istanza di cambiamento. La specificità italiana sta nel fatto che, nella dialettica tra la Rabbia e la Speranza, la personalità di Matteo Renzi ha saputo affermarsi come elemento di fusione dell’una e dell’altra. Il PD di Renzi è un PD fortemente diverso da quello di Letta o di Bersani, pur rimanendo PD. È un partito che in se stesso è già espressivo di un’istanza di forte cambiamento che Renzi ha saputo avviare velocemente, e per molti versi drammaticamente (la rottamazione). Ma è anche un partito che, accanto a quella rabbia, ha saputo dar voce alla Speranza, attraverso un’idea di Europa più chiara e stabile delle altre. Non basta la speranza di cambiare, occorre cambiare e sperare, distruggere e ricostruire.
Vi sono diverse analogie che consentono di accostare l’esperienza di Tony Blair a quella di Matteo Renzi. Entrambi hanno scalato l’establishment dei propri partiti, finendo per cambiarli profondamente e traghettandoli verso una solida affermazione elettorale. Entrambi sono stati i più giovani Premiers dei loro Paesi. Entrambi sono diventati un punto di riferimento per la social democrazia europea prima ancora che per quella inglese o italiana. Sì perché è evidente che la leadership di Renzi ha assunto una rilevanza non più soltanto italiana ma europea; e il semestre di Presidenza UE potrebbe rappresentare una congiuntura astrale determinante in tal senso.
Potrebbe! Si perché l’analogia più importante che (scusate il calembour) farà la differenza sarà la capacità di Renzi di trovare e proporre la sua Terza via!
E io credo che vi siano tanti ragioni per credere che questa Terza via potrebbe passare dal ruolo che esso intende dare a quello che più volte ha ricordato essere il primo settore pur chiamandosi Terzo. Come il Premier ha avuto modo di dirci la scorsa settimana, l’annunciata riforma del Terzo Settore s’inserisce in un progetto più ampio, nella visione di quale Europa e quale società vogliamo.
L’economia sociale sia la Terza via di Renzi, dunque! La speranza che Renzi è chiamato ad esprimere, a mio modesto avviso, dovrebbe materializzarsi in quell’Economia sociale di Mercato di cui parlano il Trattato di Lisbona, il Single Market Act e la Social business initiative. La precedente Commissione europea (come anche il Parlamento) ha saputo individuare l’importanza dell’obiettivo di una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, ma ha avuto il demerito di non esser riuscita ad imprimere concretezza a tale visione!
Eppure c’è bisogno di ripensare il nostro modello di Welfare State, sprigionando le potenzialità del Welfare Society e del Welfare aziendale. L’economia sociale può esser l’anello di congiunzione tra Crescita, Risparmio ed Equità!
Sul piano tributario, ad esempio, ho più volte parlato di fiscalità compensativa come leva in grado di valorizzare le specificità del Terzo Settore sia come fattore di crescita che come elemento di riduzione della Spesa[1], reinterpretando radicalmente tanto il principio costituzionale di cui all’art. 53 Cost., quanto la normativa europea in termini di aiuti di Stato e di SIEG.
Ma ugualmente potremmo parlare dell’importanza dell’impact investing, o delle imprese sociali in funzione di rescue company delle aziende in crisi. Pensiamo ancora all’importanza del Welfare aziendale o della CSR nelle scelte strategiche delle aziende più moderne. Pensiamo al carattere strategico di alcuni asset del nostro Paese: primo fra tutti il Settore culturale e turistico e al ruolo inclusivo e propulsivo che in esso sta svolgendo il Terzo settore[2]. Si pensi, ancora, al ruolo svolto dalle partnership profit-non profit-pubblico, di cui il recente provvedimento sull’Art bonus[3]. Si pensi infine all’importanza economica e sociale della nostra esperienza di cooperazione e alle potenzialità dell’impresa sociale.
Al riconoscimento di un’indiscussa vittoria, caro Presidente, si accompagna oggi la responsabilità di dar forma e sostanza alla Speranza di un’Italia e di un’Europa nuova; consapevoli che il fallimento di quella Speranza rischierebbe di flettere in modo decisivo il crinale della rabbia, del nazionalismo, dell’egoismo.
Come diremmo noi… Buona strada!
[1] Incidendo contemporaneamente su numeratore e denominatore del rapporto Debito/Pil.
[2] Si vedano le statistiche dell’ultimo censimento Istat 2011 e il rapporto della Banca d’Italia.
[3] Il credito d’imposta del 65% riconosciuto dal Governo Renzi alle liberalità a favore del patrimonio culturale pubblico.
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