Proiettato con successo a Venezia (in un’edizione molto “sociale” del festival), il film di Marco Bechis arriva a Milano. Stasera (alle 20) al cinema Anteo una proiezione pubblica, anticipata stamattina da una conferenza stampa
Il mondo va (spesso) così. Da una parte i grandi ricchi. Dall’altra i sempre più poveri. Emarginati, va da sé, e sfruttati. Talvolta resi stranieri alle loro stesse terre, a quelle regioni nelle quali – come nel caso dei Guarani – abitano magari da centinaia d’anni.
Nel caso del Mato Grosso du Sul gli abbienti sono i fazendeiros, proprietari di grandi appezzamenti terrieri (attualmente coltivati a canna da zucchero, necessari al business biocarburanti). I diseredati sono i Guarani Kiaowa, una popolazione che all’arrivo degli europei nel continente americano contava circa un milione e mezzo di persone e che oggi è ridotta ad alcune migliaia di individui.
Due culture a confronto
Una convivenza a senso unico, che negli anni ha ridotto a una povertà sempre più strutturale gli indigeni (che abitano le riserve e non hanno vere prospettive esistenziali). Nel frattempo continua ad aumentare il numero dei suicidi specialmente fra i giovani Guarani. Proprio da questa situazione che non parrebbe avere sbocchi, inizia La terra degli uomini rossi, il film diretto da Marco Bechis: di fronte all’ennesimo suicidio, la comunità Guarani Kiaowa si ribella accampandosi ai confini di una proprietà privata e reclamando la restituzione delle terre. L’incontro fra le due diverse culture è in qualche modo simboleggiato anche dall’amore fra Osvaldo (un giovane indigeno che in scena e nella vita è un apprendista sciamano) e la figlia di un fazeindero.
Una storia esemplare
Si fronteggiano quindi due mondi contrapposti. Due universi che, come ha sottolineato Bechis nella conferenza stampa milanese, in qualche modo «condensano più di cinquecento anni di storia»: «le ragioni del conflitto sono sempre le stesse, le terre cioè la ricchezza». E certo illuminare con i riflettori del cinema questa terra dimenticata e questo popolo, è un’operazione importante: il regista, autore fra l’altro dell’ottimo Garage Olimpo, ha spiegato come – grazie all’ausilio di Survival, un’associazione che da anni si occupa dei diritti delle popolazioni indigene (www.survival.it) – sia riuscito a mettersi in contatto con i Guarani Kiaowa, a coinvolgerli nel progetto, a farli recitare nel film (dopo un percorso di apprendimento, facilitato dal loro spiccato senso della rappresentazione). A realizzare così una pellicola non solo sui Guarani, ma insieme ad essi. Che ora, logicamente, sperano che qualcosa cambi. «Girare questo film», ha spiegato il 19enne Abrisio Da Silva Pedro (che interpreta Osvaldo), «è stata un’esperienza straordinaria: racconta la nostra vita, la nostra sofferenza. Da esso ci aspettiamo un aiuto perché il mondo conosca il nostro destino e possa decidere di appoggiarci».
Un aiuto concreto
La terra degli uomini rossi, ha precisato Bechis, non è un documentario, è un film di finzione costruito però in modo da mostrare che quel che può apparire un destino definitivo, non lo è affatto: «È possibile cambiare il futuro». O meglio aiutare gli indigeni a cambiarselo da soli, giacché questa popolazione non intende proseguire a vivere di aiuti assistenzialistici («sono «come una pistola alla tempia, che ti impedisce di tornare ad essere autosufficiente», come ha scritto il loro leader in una recente lettera aperta).
Un aiuto che concretamente ciascuno spettatore potrà dare versando un contributo che sarà indirizzato al fondo che Survival ha istituito per la causa dei Gaurani (www.guarani.survival.org).
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