Formazione
La super festa per Anna e il suo cromosoma in più
I post della seguitissima pagina "Buone notizie secondo Anna" hanno aperto finestre sulla storia di questa famiglia: ora il papà di Anna, Guido Marangoni, racconta tutto, fin dall'inizio. Che succede quando scopri che la figlia che aspetti avrà la sindrome di Down? E come cambia la quotidianità? Esce il 19 settembre "Anna che sorride alla pioggia", un libro che con ironia prova a creare un altro sguardo sulla disabilità
Tornato a casa, provai a dormire qualche ora, ma il letto vuoto era un foglio bianco dove appuntare le milioni di cose da fare per ingannare l’eccitazione. Era tutto vero. Eravamo in cinque. Quindi avevo una figlia disabile? Gli ultimi appigli del «cose che capitano ad altri» stavano finalmente abbandonando i miei pensieri per sempre. Ma tutta la bella teoria, tutte le istruzioni dovevano essere messe in pratica. Era tempo di dare un’accelerata alla logistica, dedicarsi alle cose operative, come per esempio la camera da letto. Da lì a pochi giorni in casa non ci sarebbe stata più una pancia a proiettare sogni, ma un esserino in carne e ossa che avrebbe reclamato i suoi diritti. La famosa «stanza degli ospiti» si sarebbe trasformata nella cameretta di Anna. […]
Ero felice, felice, davvero felice, talmente felice che per qualche istante della sindrome di Down me n’ero proprio dimenticato. Ma per fortuna – lo dico senza polemica – c’erano gli altri a ricordarmelo. «Dai, però è bellissima!» «È incredibile, non si vede neanche. Siete sicuri che sia Down?». Questi alcuni dei commenti, dolci e faticosi insieme, con cui amici e parenti festeggiarono il lieto evento, nel fiume di sorrisi, gioia, palloncini e grandi abbracci che riempiva la nostra stanza d’ospedale a qualsiasi ora del giorno.
Era davvero il tempo della gioia, della contemplazione, al resto ci avremmo pensato. Nulla poteva distrarci da quella felicità, nemmeno la mamma incontrata al nido, che era al secondo figlio ed era molto brava nell’arte della lamentazione. Nulla di importante, ma risaltava molto ai nostri occhi visto che era alla seconda gravidanza, entrambe andate benissimo e senza nessuna complicazione. L’argomento preferito era il confronto del neonato con la sorella di quattro anni. Dalle poche cose ascoltate non prevedevo una vita facile per il nuovo arrivato. «Guarda, forse perché è maschio o forse è un po’ tontolino, ma mia figlia è nata molto più velocemente. Tra l’altro era bellissima e riposata già dal primo giorno. Lui lo vedo un po’ goffo, e poi ha questo colore della pelle irritata dalla fatica del parto… spero gli sparisca presto».
Questo il tono della mamma, talmente in forma e truccata che a poche ore dal parto sembrava uscita dal set di Sex and the City. Noi eravamo davvero troppo felici per ribattere, ma, seppur minimamente, sentivamo di dover prendere le difese del povero bimbo: «Vedrai che bel bambino quando crescerà, cucciolo!» disse Daniela, forse più per chiudere la conversazione che per consolare la mamma. Che poi, a ben riflettere, una mamma che ha appena avuto una bimba con sindrome di Down che ne consola un’altra che si lamenta perché il maschio è leggermente più brutto della figlia è abbastanza paradossale.
A difesa della mamma «Sarah Jessica Parker» devo però dire che non si era accorta della particolarità di Anna. Il giorno dopo, infatti, poco prima delle dimissioni, la dottoressa, incontrando Daniela in corridoio, le chiese se avevamo già preso contatto con qualche associazione che poteva darci informazioni sulla sindrome di Anna. La mamma fashion sbarrò gli occhi dallo stupore portandosi la mano alla bocca e, una volta dileguatasi la dottoressa, disse a Daniela: «Scusa, ma perché vi parlava della sindrome di Down?». «Beh, perché Anna ha la sindrome di Down», rispose Daniela prendendo in braccio la piccola. «Vero, Anna? Un bel cromosoma in più!».
«Ma come? In questi giorni parenti, amici, regali, palloncini, colori. Avete fatto festa e sembra che siate felici…».
«C’è anche una buona dose di paura, ma lo siamo davvero… e poi abbiamo fatto festa ad Anna, non alla sindrome di Down!». Quando Daniela dà queste risposte, la sposerei. […]
La disabilità a volte è bastarda, con noi genitori: ci fa accontentare. E accontentarsi impedisce di esplorare, osare, provare, sbagliare, rischiare, ma in qualche modo induce a rinunciare per rimanere in una zona conosciuta e rassicurante
Anna cresceva di giorno in giorno, e ogni sorriso, ogni sguardo, ogni gesto intenzionale erano una gioia, una conquista. Quando sei senza orologio e stai bene non ti accorgi di come passa il tempo. Lo stesso succedeva con Anna: senza riferimenti esterni, non ci rendevamo conto di come il tempo fosse dilatato per tutto senza che questo ci pesasse. Tuttavia, non appena ci confrontavamo con un «orologio», che poteva essere il cuginetto della stessa età, ci accorgevamo un po’ alla volta delle differenze che fino a quel momento avevamo trascurato.
Può sembrare banale, ma non si nasce genitori, si impara a esserlo, e ancor di più si impara a essere genitori di un figlio con disabilità. Non fosse altro che per la mole di documentazione e uffici da contattare per orientarsi nella giungla di burocrazia e pratiche per far riconoscere i diritti della piccola.
Anna era di una dolcezza e potenza disarmante. Spesso mi trovavo a guardarla e non riuscivo a farmi una ragione del perché dovesse avere qualche diritto in meno di me. Ma erano pensieri di papà innamorato.
Uno dei primi gesti intenzionali di Anna che mi sorprese ed emozionò fu quando, mentre leggevo un’email sullo smartphone con lei in braccio, mi prese il viso tra le mani e indirizzò il mio sguardo nel suo. Mi fissò negli occhi e basta. Con quel semplice gesto Anna mi fece capire che con lei avrei avuto modo di imparare, non solo insegnare.
«Guardami!» sembrava dirmi. E in quello sguardo forse c’era la risposta al mio bisogno di studiarla, inquadrarla, e alla mia involontaria tendenza a sottovalutarla. Perché la disabilità a volte è bastarda, con noi genitori: ci fa accontentare. E accontentarsi impedisce di esplorare, osare, provare, sbagliare, rischiare, ma in qualche modo induce a rinunciare per rimanere in una zona conosciuta e rassicurante.
Uscire nel mondo è faticoso, anche con Anna che è davvero un «Cicciobello» di tenerezza. A volte non si ha davvero la forza di spiegare agli altri quello che si sta vivendo e si preferisce rimanere chiusi nel proprio piccolo cosmo, dove tutto è conosciuto e sotto controllo. Avevo già incontrato tante famiglie un po’ rassegnate e avevo faticato a capirle, ma ora iniziavo a intuire le loro ragioni.
Dallo sguardo di Anna agli sguardi della gente c’era un mondo. Una delle esperienze più spiazzanti e faticose che un genitore di figli con disabilità vive ogni giorno sono, appunto, gli sguardi delle persone che si incontrano. La loro potenza e prepotenza. Bastava semplicemente camminare per il centro con Anna nel passeggino per rendersene conto. E anche se Anna era una cucciola che avrebbe intenerito anche il più ruvido dei cuori, ugualmente negli occhi altrui era frequente leggere imbarazzo, interrogativi, a volte giudizio. Era un segnale evidente della mancanza di abitudine alla diversità, o meglio di confidenza con la disabilità.
Per il momento però Anna di tutto questo se ne fregava, e si allenava a cercare il proprio spazio e a esercitare il proprio volere, prima chiedendo un biscotto, poi arrivando a esprimere il proprio disappunto se non voleva andare a letto.
Il suo sperimentare mi riempiva di meraviglia ogni volta. E, in fondo, mi portava a chiedermi come mai, quella stessa meraviglia, declinata in mille altri modi diversi, faticassi a concederla agli altri.
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