Non profit

La strage dimenticata

A 25 anni dal disastro ancora nessun risarcimento. E intanto le contaminazioni continuano

di Riccardo Bianchi

Il motto della Union Carbide era Safety First, la sicurezza prima di tutto. Ma quello non era un periodo buono per l’economia e gli insetticidi prodotti nella piccola succursale del Bhopal indiano, aperta da quattro anni, non si vendevano. Così nel 1984 l’azienda è ormai in via di chiusura. Scarseggiano i controlli e la qualità dei macchinari.

Così la notte tra il 2 e il 3 dicembre una incrostazione nelle tubature fa sì che l’acqua usata per pulirle finisca in una cisterna di isociananto di metile (Mic). Unito all’acqua, il Mic reagisce e, non trovando sulla sua strada nessun ostacolo, neppure la fiamma del bruciatore della torre di decontaminazione che dovrebbe incendiarlo, ma che è spenta, inizia a premere sulle valvole esterne. La pressione è tale che le valvole saltano e l’acido isocianico, creato dalla reazione di Mic e acqua, forma un gaiser sopra l’impianto. Il vento forte lo spinge verso la bidonville vicina, dove vivono ammassati molti poveri.

Le stime ufficiali parlarono di 2259 morti, alla fine il governo del Madhya Pradesh accertò il decesso di 3787 persone. Ma secondo fonti indipendenti sarebbero tra gli 8mila e i 10mila i morti a causa del gas nelle sole 72 ore successive, e 25mila e oltre negli anni successivi.

Sathyu Sarangi era un dottorando di ingegneria. Abitava vicino alla zona del disastro e quando ha visto cosa era successo, ha deciso di mollare tutto e dedicarsi alle vittime. Da 25 anni lotta per i loro diritti. È fondatore del Fronte di lotta contro i casi di sostanze tossiche, che riunisce i sopravvissuti del Bhopal, e dal 1995 Amministratore fiduciario della Sambhavna Clinic di Bhopal. Vita l’ha incontrato.

Sarangi, oggi ricade il venticinquesimo anniversario del disastro. Qual è la situazione in Bhopal?
«Le vittime vivono in pessime condizioni. Ci sono più di mille persone con malattie croniche, come il cancro, decine di migliaia di bambini con malformazioni e disturbi dello sviluppo, tra le 25 e le 30 mila persone malate perché bevono l’acqua del terreno che è ancora contaminata perché nessuno ha mai pensato a un processo di decontaminazione della zona. Inoltre molte famiglie non hanno di che muoiono di fame perché gli uomini non possono fare lavori fisici. C’è molta più miseria oggi che venticinque anni fa»

Attraverso un complicato gioco di avvocati, la Union Carbide è riuscita a non farsi giudicare né in India né negli Stati Uniti. Almeno ha fatto qualcosa per la gente?
«Non ha fatto niente, neppure dopo la tragedia. Volevamo sapere che gas contenessero quelle cisterne. Non lo dissero, affermando che c’era il segreto industriale. Molti potevano essere curati subito se si fosse conosciuto l’antidoto adatto. Sappiamo anche che c’erano altri gas oltre il Mic, perché in quella fabbrica si conducevano ricerche. Ma niente. In questi anni, poi, hanno considerato la gente del Bhopal come persone di seconda classe, le cui vite non hanno valore. Questo è razzismo».

Cosa hanno fatto le istituzioni per queste persone?
«Le hanno dimenticate. Hanno svolto pochi incontri con la Union Carbide e “in nome delle vittime”, ma senza mai consultarle. Il governo ha tradito la gente, continua ad aiutare la compagnia a evitare le proprie responsabilità legali, mentre punisce chi protesta».

Ad oggi ancora non è stato trovato un responsabile. Eppure nel 2008 il governo centrale di Nuova Delhi aveva parlato di una commissione speciale, che poi non partì perché c’erano le elezioni…
«Il governo indiano era favorevole, ma quello dello stato del Madhya Pradesh no. Nello stato governa il partito di destra indu, che pensa che quello del Bhopal sia un problema dei musulmani e non vuole far niente per aiutarli. E poi temono che eventuali risarcimenti per le vittime passino in mano alla commissione e non sia più il governo statale a decidere a chi e come elargirli».

La comunità internazionale come si è comportata?
«L’Onu e la Croce Rossa non hanno fatto niente. Per lo tsunami o per i terremoti si sono mossi subito, erano tragedie naturali. Ma qui c’era di mezzo una società. Tutti gli aiuti sono arrivati dalla gente comune, da studenti, lavoratori, sindacati e comunità colpite dall’inquinamento industriale che si sono sentiti vicini ai bhopaliani. Non certo dalle organizzazioni ufficiali».

Insieme ad Amnesty International, siete venuti in Europa per portare in molte città comprese quelle italiane, la vostra esperienza. Che risultati ha dato questo tour?
«Siamo rimasti sorpresi dal sostegno  dimostrato. Molti ricordano il Bhopal e hanno mostrato compassione. Abbiamo incontrato molti giovani e molti membri del Parlamento Europeo. Il sostegno cresce perché anche gente in posizioni di potere ci ascolta e ci aiuta, e questo è un successo».

Ha una speranza?
«Che le vittime possano avere giustizia, che la Union Carbide e tutti gli ufficiali responsabili del disastro abbiano punizioni esemplari, nonostante gli impedimenti del governo statale, e che la commissione speciale sia istituita, sparando che possiamo avere supporto della comunità internazionale».

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