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La storia di Nour, una mamma di Aleppo, che rappresenta tutta la Siria

Rimasta intrappolata per giorni tra le macerie di un edificio raso al suolo da una bomba che le ha portato via due figli e la suocera è stata salvata dopo otto giorni. Una vicenda che incarna le vicissitudini di questo martoriato Paese, i patimenti e i dolori di tutte le persone innocenti

di Lorenzo Maria Alvaro

La Siria che conoscevamo sta scomparendo, un popolo intero sta morendo. Sono oltre 13 milioni i siriani in stato di bisogno. E quasi 11.5 milioni, di cui il 40% bambini, non ricevono cure mediche. Ad Aleppo le persone che non hanno accesso agli ospedali sono più di 2 milioni, a Damasco oltre 1 milione. Con la campagna Tende #RifugiatiMigranti, con Cor Unum e Fondazione Policlinico Universitario Gemelli, Fondazione AVSI vuole potenziare alcuni ospedali privati non profit a Damasco e Aleppo per garantire le cure alle vittime della guerra. Vittime come Nour e la sua famiglia.

«Un topo. Un topo che per otto giorni ha camminato intorno alla mia testa. A un centimetro dai miei occhi, dalle mie labbra. E io, imprigionata dalle macerie, non potevo far altro che urlare, per cacciarlo via». Si veste da topo, a volte, la guerra. Per far più paura, per guardare negli occhi chi ancora respira e mangiargli il cuore prima di ucciderlo. Nour ha 23 anni e un marito. Aveva due figli.

Per la sua anima hanno pregato, ad Aleppo. Per la sua e per quella dei suoi figli, una bimba di tre anni e un bimbo di due. Per quella di sua suocera, anche, che viveva con loro. Hanno pregato in tanti, ad Aleppo. Suo marito, che quando la bomba è caduta, era fuori casa. E suo fratello, Grus, che lavora all’ospedale Rajah di Aleppo, diretto da Emile Katti: «Stavano celebrando i riti funebri da giorni – racconta il medico – quando suo padre è tornato tra le macerie del quartiere, per cercare di recuperare almeno i cadaveri della sua famiglia». Un suono confuso. Forse solo un ronzio, forse qualcuno che chiede aiuto. E allora scavare non è più il gesto necessario a una dignitosa sepoltura, ma l’urgenza di scoprire se qualcuno, dopo otto giorni, è ancora in vita. Arrivano in parecchi. A mani nude, spostano piastrelle, cemento, l’acciaio ritorto dei tondini d’armatura.

Nour è incredibilmente viva. Ferita, esausta, a un solo centimetro dall’ultimo buio. Ma quel centimetro c’è ancora. Viva. Nour è viva. Siamo a Fardos, quartiere est della grande città siriana, da quattro anni controllato dalle forze jihadiste che si oppongono a Bashar al Assad.


Le truppe governative avanzano. Forse un rocket, forse un mortaio, poco importa. Qualcosa colpisce il palazzo e il palazzo crolla: «Mia suocera è morta sulle mie ginocchia, schiacciata da un muro – racconta Nour – I miei bimbi non li ho visti. Sono ancora là sotto». Le ferite nel corpo sono poca cosa rispetto a quelle nel resto: «Le cure hanno funzionato – spiegano in ospedale – Nour è stata fortunata. Due muri contrapposti sono crollati l’uno contro l’altro formando una sorta di nicchia. L’hanno imprigionata, bloccata, ferita, ma non uccisa. Non poteva muoversi, ma non ha subito lesioni maggiori. Nel fisico, ovvio. Quello che ha passato là sotto, invece, è più pesante di qualsiasi muro. Noi abbiamo curato la pelle, la carne, le ossa. Niente di più».

Ora ha bisogno di risistemarsi l’anima. Una cosa molto, molto più difficile. Specie se sotto quelle macerie ne ha lasciate altre due, di anime. Di troppi pochi anni.

Nour incarna la storia recente della Siria. I patimenti e i dolori di tutte le persone innocenti. Mentre le analisi geopolitiche si moltiplicano, accavallano e contraddicono, la terra si sazia coi figli di tutte le Nour della Siria. La guerra non ama chi ha torto o ragione. Lei ama i topi. I topi soltanto. Quelli che ti corrono intorno alla faccia. Quelli che ti mordono i pensieri. Per fortuna, esiste ancora la speranza. Anche quella di uscire da otto giorni di macerie. E di trovare qualcuno che ti accoglie, ti cura, si preoccupa di te. Per fortuna, esiste ancora la vita, oltre tutto questo. Impertinente, sempre capace di sorprendere. Di farsi trovare là, proprio là, dove nessuno ci crederebbe più.


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