Volontariato

La stagione dell’intolleranza globale. Una Fallaci calibro 30

La guerra è stata la dimensione che più ha segnato la vita delle persone. Ma non è una guerra lontana. E c’è un emblema di questo clima avvelenato.

di Marco Revelli

Guerra. Tra i tanti messaggi che l?11 settembre poteva seminare nel mondo – pietà, cordoglio, solidarietà, riflessione, ripensamento, giustizia? -, uno solo, il peggiore, ha finito per dominare su tutti, almeno nel mondo della politica e dei media. Fin da subito, già nelle ore immediatamente successive al massacro: il grido atavico e tribale della faida e del taglione. Da allora il nostro orizzonte è stato dominato dalla guerra. In modo strano, insieme impalpabile e totale. L?incanaglimento Non si può dire, in senso stretto, che siamo entrati in guerra: non c?è stata (finora) la mobilitazione totale tipica dei conflitti novecenteschi. Nessuno è stato (finora) richiamato. Nessuno, almeno qui, ha dovuto imbracciare un fucile, indossare una divisa, ammazzare ed essere ammazzato. Non abbiamo visto partire verso fronti lontani amici o parenti, figli o padri o mariti; non abbiamo dovuto assistere al mesto ritorno di feretri imbandierati. Eppure la guerra, immateriale, virtuale come quasi tutto ormai, impalpabile, si avverte come una presenza ingombrante. Potremmo dire che la guerra è entrata in noi. Ha incominciato a possedere le nostre vite, i nostri sentimenti, il nostro linguaggio. Lo possiamo misurare, questo indurimento progressivo, questo incanaglimento dell?anima, nel rapporto con l?Altro (la vera, principale misura del nostro grado di civiltà): nel riflesso di chiusura che già esisteva, in sospensione nel nostro immaginario, ma che da allora è dilagato, si è fatto filosofia sociale, pratica politica e legislativa, ?ordinamento pubblico?. Ha avvelenato il concetto stesso di relazione introducendo, dura come una lama, l?immagine del nemico. Sovrapponendo al viso di ogni altro la maschera minacciosa dell?aggressore. In che altro modo interpretare una legge come la Bossi-Fini, che fa dell?identificazione dello straniero col nemico e con l?invasore il proprio principio ispiratore (dell??ossessione immunitaria? la propria ?metafisica influente?, direbbe il filosofo)? E che proclama, senza ottenere quel coro di ripulsa che solo qualche anno fa l?avrebbe accolta, la volontà di chiudere le frontiere, d??immunizzare?, appunto, il territorio nazionale (ancora il ?sacro suolo??) dalla dissacrazione dello straniero, minacciando ?tolleranza zero? (un?espressione che in sé fa rabbrividire) per chi osasse trasgredire. Non è guerra, questa? Così come è guerra, giurisdizione di guerra, la sciagurata sentenza di quel giudice (giudice?) di Ragusa che ha iscritto all?albo degli indagati i marinai di un peschereccio per aver prestato soccorso in mare a un battello d?immigrati in pericolo di naufragio (per aver cioè onorato un principio essenziale del proprio mestiere, che impone di prestar soccorso in mare senza guardare in faccia nessuno). E la successiva, sciagurata ma conseguente, decisione dei marinai di un altro peschereccio di negare aiuto a un?altra barca in pericolo, per non incappare nello stesso ?reato?. è guerra questa sospensione (ahimé non temporanea) dei più elementari principii umanitari, di ogni deontologia, che travolge e nega quanto faticosamente l?etica professionale, la cultura civile, il sentimento religioso, la civiltà giuridica avevano sedimentato. Di questa microfisica della quotidianità bellica sono piene le cronache: dai deliri del sindaco di Treviso sulla ?razza piave?, agli arresti bolognesi in San Petronio (il nemico è ovunque, se parla arabo ed è maghrebino), ai commenti sacrileghi di Maggiolini proprio dopo la tragedia dei cinque ragazzi curdi senza nome morti sul Tir come in una camera a gas postmoderna. Tutti gesti riprovati, certo, da una parte della nostra società, ma sempre più stancamente. Come dire?, più timidamente, come timidamente dovevano parlare nel 1915 i residuali neutralisti, durante le infatuate giornate del ?maggio radioso?. L?odio di Oriana E d?altra parte come, se non in una logica di guerra, interpretare il travolgente successo di quel (per la verità grottesco) ?manifesto dell?odio? che è La rabbia e l?orgoglio della Fallaci, e la simpatia corriva di tanto establishment giornalistico (che coraggio, Oriana! che franchezza! che stile perentorio! che eroismo, lapidare finalmente senza remore gli ultimi in omaggio ai primi!), e la timidezza impacciata di chi avrebbe voluto criticare? perché davvero quel linguaggio da caserma, quel lessico da fureria, sembra corrispondere a un bisogno interiore di ?verità?. Al nuovo statuto esistenziale di una società interiormente votata al conflitto molecolare con ?gli altri?, e per questo decisa a liquidare ogni residuo di rispetto come ipocrisia. Anche questo è guerra: questo impercettibile logorarsi dei rapporti e delle lealtà, questo indurirsi dei volti e dei gesti, questo raffreddarsi degli sguardi e perdersi del gusto amichevole dell?incontro. Infine, questo rifiuto caparbio dell?ascolto in nome di proprie verità non più discusse, perché ogni ?esterno? è considerato rischioso, ogni diversità un pericolo, ogni dubbio una diserzione. Non credo che possa essere interpretata come l?unica causa, ma certo un ruolo decisivo in questa inquietante degradazione antropologica dei nostri mondi vitali deve averlo giocato l?invasiva, tormentosa ?pedagogia del disumano? che i media hanno praticato, pressoché ininterrottamente, nell?ultimo anno. Lo ?spettacolo del dolore? ripetuto all?infinito, con la sovrapposizione ossessiva dei brevi istanti dell?impatto e della caduta delle torri, da una parte, e della catena di orrori che ne sono seguiti, dall?altra: la mattanza di Mazaar I Sharif, le fosse comuni di Kunduz, le gabbie medievali di Guantánamo, Kabul e Kandahar con i poveri stracci che volano, le facce antiche che piangono, e la sabbia che ricopre l?orrore come nella sacralità pagana di un?antica fede in un dio crudele e vendicativo. Il nemico dentro di noi Così la guerra ci è entrata dentro, attraverso gli occhi e lo schermo, fino a farci assuefare alla morte e all?ingiustizia, alla violenza e all?impunità. Fino a ottunderci la mente, e convincerci che questo è l?unico mondo possibile. E che la forza è la sua unica verità. Liberarsene non sarà facile. Soprattutto se si è soli: se non si dispone di ?reti corte? di fiducia e socialità. O di occasioni concrete di incontro e relazione con gli altri (se l?Altro compare nel nostro raggio visivo solo attraverso il suo stereotipo, nella forma simbolica e astratta con cui il sistema delle comunicazioni lo costruisce). Perché, appunto, vincere la guerra che è entrata dentro di noi significa, in buona misura, sottrarsi alla presa che l?universo simbolico della comunicazione pubblica esercita su una società ridotta ad atomi. Evadere dal cerchio chiuso degli stereotipi. Cercare ogni volta, sotto il simbolo, la persona; dietro la maschera l?ingiustizia che vi è nascosta; oltre l?immagine (astratta) del nemico la possibile ragione (concreta) di un incontro. Non so se ciò sarà possibile, soprattutto se lo stillicidio di morte di quest?anno dovesse lasciare il posto al minacciato diluvio iracheno. Ma credo che si debba tentare, come hanno fatto quest?anno i tanti volontari che, qui e nel mondo, hanno tentato di ?mettersi in mezzo?, scegliendo gli uomini e non i feticci.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA