Teatro
La Sparanoia, alias della partecipazione giovanile stretta fra tisane e manganelli
Niccolò Fettarappa, 27 anni, porta in scena il "ruggito addomesticato" di una generazione che ha scolarizzato la rabbia. Vittime e complici di una repressione del desiderio di cambiare le cose che fa leva sull'ironia da aperitivo per portarci a pensare che "there is no alternative"
Uno stendino può essere il simbolo della rivoluzione? Sì, se la rivoluzione è quella mancata, addomesticata, rinviata, repressa e depressa propria di una generazione che vorrebbe cambiare il mondo e invece finisce per accontentarsi di pulire lo sporco dagli angoli di casa. «È un attimo passare dal “coccolino” al nazionalismo militare», mette in guardia però Niccolò Fettarappa Sandri, classe 1996, autore e regista. La sua è un’analisi pungente della generazione di giovani (o più di una) dal ruggito addomesticato e dalla rabbia scolarizzata, ossessionati dalle tisane al finocchietto e dai lavaggi per capi delicati, vittime e complici della repressione. Tutto questo è La sparanoia. Atto unico senza feriti gravi purtroppo, fino al 10 marzo al Franco Parenti di Milano e poi a Roma, al Teatro Vascello, dal 26 al 30 marzo.
Romano, laurea in filosofia con una tesi su Theodor Adorno, mentre parla Niccolò dissemina ossimori, metafore e riferimenti filosofici e sociologici: «A teatro però non fai un saggio, a teatro devi rendere concetti profondi con un linguaggio che deve avere immediatezza, rapidità, spontaneità. La risata è la breccia che cerchiamo nello spettatore per inoculare piccole cariche esplosive di critica sociale. La risata è il nostro cavallo di Troia: non è una risata televisiva, ma una risata che vuole risvegliare un feroce desiderio di cambiamento», dice.
Partiamo dall’inizio. Cos’è la “sparanoia” e perché “senza feriti gravi, purtroppo”? Dopo i fatti di Pisa ha un suono diverso.
La sparanoia è una crasi tra sparatoria e paranoia. La paranoia è uno strumento di potere per isolare e atomizzare gli individui, per ridurre in frammenti la società. È il dire che la società non esiste, esistono solo gli individui, cellule che pensano al proprio business e si isolano dal diverso, che il diverso sia lo sporco che c’è in casa, l’immigrato o il barbone. La paranoia comporta a lungo andare (neanche troppo lungo) la criminalizzazione del diverso. È la logica delle ronde di quartiere o di certe narrazioni giornalistiche sulle baby gang, gli studenti in piazza, i tossici… sono tutte esternazioni di un sentimento paranoico. La sparatoria invece è metafora del conflitto aperto: un conflitto radicale che è necessario per cambiare le cose, ma che nello spettacolo non avviene. La rivoluzione è scarica, sconfitta in partenza. In questo senso, provocatoriamente, diciamo che “purtroppo” non ci sono feriti: non ci sono feriti perché non c’è stato scontro e non c’è scontro perché si preferisce non disturbare la quiete pubblica. La stessa parola rivoluzione ormai suona come una parolaccia: ma cosa vuoi cambiare? Ovviamente poi rivoluzione è una parola che va riempita… a teatro ci interessa come categoria per indicare una critica assoluta dell’esistente.
La rivoluzione è scarica, sconfitta in partenza. Non c’è scontro perché si preferisce non disturbare la quiete pubblica. La stessa parola rivoluzione suona come una parolaccia: ma cosa vuoi cambiare?
Niccolò Fettarappa
Il tema quindi è la piazza, le manifestazioni, il metterci i corpi, il palesare un dissenso… la protesta come partecipazione.
Sì. Ma la partecipazione e la protesta oggi stanno strette tra la morsa della tisana e quella del manganello. Nei contesti discorsivi in cui abitiamo, dai flussi della tv ai discorsi che facciamo al bar si sviluppa una pigra inettitudine, una rinuncia che porta tutto a livello ironico. Si parla di tutto con un solo registro, quello dell’ironia da aperitivo. In sociologia ormai si parla di post ironia, perché l’ironia è atta ad esorcizzare i problemi, mentre oggi si scherza su tutto e non si fa mai sul serio su nulla.
Dopo i fatti di Pisa questo spettacolo risulta particolarmente emblematico. Ma come è nato?
Noi siamo partiti dall’analisi di una narrazione dominante e paternalista che infantilizza i giovani e li raffigura come eterni minorenni da educare. Li bambinizza e li rimpiciolisce nelle loro richieste. C’è un regime narrativo per cui i giovani sono o tossici o sfaticati o irrecuperabili depressi. Sono sempre da curare, da correggere, da compatire. Mai da ascoltare. I giovani sono sottorappresentati in politica, nei media e nella tv: a parlare di loro e per loro ci sono sempre gli esperti, che sono sempre anziani. Prendono parola al posto loro e lo fanno in modo nonnesco e gerontocratico. Al giovane così bisogna sempre dare una lezione. In questo contesto discorsivo, i giovani finiscono per essere addomesticati. In parallelo sono storditi dall’idea del successo, dal mettersi in gioco nel mercato, dalle ambizioni. Nel momento in cui protestano rispetto a una delle due cose, le loro proteste vengono derubricate e represse.
La partecipazione e la protesta oggi stanno strette tra la morsa della tisana e quella del manganello. C’è una pigra inettitudine: si parla di tutto con un solo registro, quello dell’ironia da aperitivo
C’è chi dice che per andare in piazza occorrono preliminarmente due cose: saper vedere gli altri, non solo l’io e credere che le cose possano essere cambiate. Sono due ingredienti che oggi mancano?
È vero, un’altra narrazione imperante è quella della psicologizzazione. Il malessere quando viene collettivizzato diventa un problema politico e non un problema individuale da risolvere con la psicoterapia e i percorsi individuali. Oggi non si viene mai invitati a pensare che il malessere individuale deriva dalla società stessa, si pensa di risolvere i problemi agendo sulla scatola degli affetti primari. Ma la classe dirigente decide del nostro futuro: dallo psicoterapueta invece di parlare solo del padre e della madre dovremmo parlare anche di ministri, legislatori, associazioni di categoria. Altrimenti restiamo chiusi nel fatalismo: sul piano individuale il fatalismo è la “prigione” dell’empowerment e del “se vuoi, puoi”, sul piano politico è il “there is no alternative”, ossia il pensare che l’unica alternativa all’esistente sia il nulla, la catastrofe. È per questo fatalismo diffuso che noi non pensiamo più alla piazza come luogo di trasformazione ma come luogo desertificato e disertato. Viviamo un nichilismo disattivante.
Perché al centro della scena avete messo uno stendino per la biancheria?
La casa è un luogo privilagiato della nostra narrazione perché la casa è diventata, soprattutto dal lockdown, un luogo preponderante delle nostre vite. La casa è luogo di narcisismo, di autosostentamento, di disciplinamento: il nesso tra casa e repressione è quello che vogliamo indagare nello spettacolo, anche nella forma dell’autocensura. La paronoia sul piano politico si traduce in politiche identitarie – i confini, l’identità – sul piano personale è il culto del mio, della pulizia degli angoli. Per questo diciamo che c’è un nesso tra le nostre nevrosi casalinghe e il nazionalismo militare. Magari desideriamo fare la rivoluzione, ma poi ci accontentiamo di fare il bidet con l’acqua tiepida e di sorseggiare una tisana.
La paronoia sul piano politico si traduce in politiche identitarie, sul piano personale è nel culto della pulizia degli angoli. C’è un nesso tra le nostre nevrosi casalinghe e il nazionalismo militare
Che feedback vi restituisce il pubblico?
A teatro il pubblico è trasversale, raccontiamo di un malessere che è sì raccontato da un 27enne ma che attraversa tutte le fasce d’età, in cui tutti si riconoscono perché tutti da soli stiamo male. Tanti ci dicono di essersi esaltati a teatro, di aver provato una grandissima carica di energia… ma poi a casa un pianterello se lo sono fatto. È uno spettacolo che richiede elaborazione. Speriamo che faccia più danni possibile.
Foto di apertura di Antonio Ficai, courtesy of Fondazione Armunia
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