Mondo

La Somalia muore e il mondo dorme

di Giulio Albanese

Non molto tempo fa un caro amico che opera nel servizio diplomatico mi ha raccontato che in un meeting europeo sulla Somalia, il rappresentante della Croce Rossa chiese come fosse possibile che questa crisi umanitaria si manifestasse, allo stesso tempo, “così grave e così invisibile”. La risposta, inutile nasconderselo, sta nel senso di sfiducia e frustrazione che da anni caratterizza la comunità internazionale nei confronti dello scenario somalo. D’altronde, le notizie che giungono in queste ore da quelle parti sono davvero allarmanti. Il governo federale di transizione del presidente Sheikh Sharif Sheikh Ahmed è sempre più accerchiato dalle formazioni jiahadiste che intendono rovesciarlo, avendo il pieno controllo della maggior parte del territorio. Una situazione paradigmatica del deficit di legalità che interessa l’intera regione del Corno d’Africa, dove la diplomazia internazionale sembra essere in grave affanno. Basta dare una rapida scorsa agli interessi in campo per rendersene conto. Da una parte vi è l’Etiopia che in questi anni si è prodigata nel proporsi come l’alleato più fidato, credibile e militarmente efficiente degli Stati Uniti. E sebbene per due anni abbia occupato militarmente la Somalia (2007-‘08), non è riuscita a sconfiggere le forze ostili al governo federale di transizione, internazionalmente riconosciuto ma debole nei consensi. La speranza era tutta riposta nelle mani del moderato Sheikh Ahmed, succeduto nel dicembre scorso all’anziano presidente Abdullai Yusuf, con l’intento dichiarato di perseguire l’agognato progetto di pacificazione nazionale, ispirato all’accordo di Gibuti del giugno 2008. Sta di fatto che le forze ribelli del gruppo degli al Shebaab, aiutati militarmente da giovani combattenti provenienti prevalentemente dall’area mediorientale, hanno decisamente avuto la meglio. Una vittoria la loro resa anche possibile dal consistente impegno militare – in armi, uomini e munizioni – offerto dal governo eritreo, come peraltro denunciato mercoledì scorso dallo stesso Sheikh Ahmed. A questo proposito è chiaro che la Somalia è sempre più la cartina al tornasole delle rivalità tra Etiopia ed Eritrea il cui interventismo a Mogadiscio e dintorni acuisce la “guerra fredda” tra i due Paesi, una rivalità in atto dalla firma degli accordi di pace del 2000. Questo contesto geopolitico naturalmente preoccupa la Casa Bianca che considera la Somalia una sorta di linea di faglia tra Oriente e Occidente in territorio africano. Nella prospettiva degli Stati Uniti la fascia che va dal Mali al Mar Rosso, rappresenta la più importante cintura del sistema di sicurezza dei prossimi anni, nel senso che il suo controllo garantisce il diritto di accesso alle risorse e ai luoghi strategici da parte delle grandi potenze occidentali. Punti deboli di questa fascia sono oltre all’Eritrea, il Ciad, il Sudan e soprattutto la Somalia, considerati come possibili varchi della penetrazione estremista islamica in Africa. A ciò si aggiunga la consistente presenza di idrocarburi nel Corno d’Africa, come anche nei fondali dell’Oceano Indiano, che rappresenta un notevole fattore d’instabilità per l’interesse di potentati più o meno occulti. Com’è noto, le coste somale continuano ad essere infestate da bande di pirati che, secondo alcune fonti ufficiose, verrebbero foraggiate non solo da gruppi sovversivi, ma anche da misteriose forze internazionali intenzionate a scoraggiare, almeno per ora, le possibili e fortemente remunerative attività d’estrazione petrolifera off-shore tra la sponda yemenita e quella somala. In questo contesto segnato dalla sofferenza della popolazione civile, le Nazioni Unite appaiono impotenti limitandosi a prorogare – attraverso la risoluzione 1872 votata un paio di giorni fa dal Consiglio di Sicurezza fino al 31 gennaio 2010 – la missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom). In effetti si tratta di una sorta di forza d’interposizione che riesce a garantire a malapena l’incolumità dei propri militari. Da tempo al Palazzo di Vetro si dibatte sulla possibilità di un maggiore impegno dell’Onu in Somalia, possibilmente con il dispiegamento di caschi blu, ma finora non vi è stata la volontà politica da parte di molte cancellerie. L’unico segnale positivo, sul piano internazionale, viene dalla prossima riunione dell’International Contact Group sulla Somalia che si terrà a Roma il 9 e 10 giugno. Al nostro governo, che peraltro s’è fatto promotore di questa iniziativa, il delicato compito di tenere i riflettori puntati su un Paese che, alla prova dei fatti, rappresenta da tempo la prima emergenza umanitaria del pianeta.

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