Cultura
La solidarietà chiama. 28mila rispondono. Il racconto dei tre giorni di Civitas
Una folla ancor più numerosa dello scorso anno. Ben 260 gli stand, tutti presi d'assalto; tantissimi anche gli incontri (ben 78). La sesta edizione della festa è stata un successo
Igor ti viene incontro con passo pesante e ti scruta curioso guardando dritto al di sopra degli occhiali. «Prendi un cuco?», chiede, soffiando con forza dentro un’ocarina d’argilla a forma di gallo. Cuù, e dice: «è per l’associazione sindrome di Prader Willy, e io sono un ragazzo che ce l’ha». Semplice, come fermarsi a questo piccolo stand, uno dei 260 che hanno animato la sesta edizione di Civitas, il salone della solidarietà di Padova. Semplice, e infatti intorno a Igor si forma presto una piccola folla, attirata dalla sua allegra cocciutaggine e dai cuchi, come chiamano in Veneto i fischietti a forma di uccelli che Franco Marchiori, ceramista con bottega sull’antico ponte di Bassano, plasma in diretta davanti alle faccine stupite di un gruppo di bambini. Cuù, continua a fischiare Igor (che ha 21 anni ma ne dimostra una decina di meno) e incassa altre 10mila per l’associazione, mentre il padre Gilberto Michielli, con gli stessi occhiali e occhi del figlio, spiega gioie e fatiche del tutelare, da volontario, i diritti di chi è affetto da questa semisconosciuta sindrome. «La chiamano “del lucchetto”», spiega Gilberto, «perché per tenere i malati lontani dal cibo, da cui sono patologicamente attratti senza mai potersi saziare, siamo costretti a chiudere a chiave frigo e dispensa». Sono tante, in mezzo alle 600 presenti quest’anno in fiera, le associazioni come quella di Igor: piccole, regionali, composte da persone che si conoscono e fanno i turni all’ora di pranzo per andare a prendere un panino e tornare subito allo stand a vendere ceramiche, distribuire volantini, raccogliere firme, mostrare foto. In fondo è da qui, da questo serbatoio di braccia e sorrisi che Civitas ha sempre tratto grandezza e limite, forza e debolezza, entusiasmo e localismo; ma quest’anno, per raccontare cosa è successo a Padova, bisogna parlare anche di altro.
La rete di Lilliput
Il popolo di Seattle: fantasia e mezzo stand
Una delle novità più evidenti è l’insolita presenza di molti ragazzi, piovuti chissà da dove con i loro zaini pesanti, i sandali e le braccia cariche di volantini. Il loro punto di ritrovo non è il palco con enormi casse acustiche, pensato per “i ggiovani” ma su cui si alternano chitarristi dalle tempie già grige; no, il passaparola li raduna davanti al mezzo stand (condiviso, per tagliare le spese, con un’associazione che si occupa di malati di Alzheimer) della rete di Lilliput, una delle organizzazioni più consapevoli nel movimento che si oppone al G8 di Genova. Sarebbero loro il “popolo di Seattle” contro cui sabato 5 maggio sempre a Civitas Pierferdinando Casini aveva invocato fermezza, chiamandoli “teppisti”? Nicola Pellichero e Fabrizio De Mattei, entrambi padovani e 28enni, entrambi con barbetta curata e capelli rasati, dei teppisti non hanno né l’aria né i modi. Nicola è impegnato con la cooperativa Nuovo Villaggio che si occupa di immigrati, e Fabrizio con Aifo (l’associazione di Raoul Follereau per i lebbrosi). Loro se la ridono delle etichette, e precisano: «Siamo contro la violenza, e preoccupati per come ci dipingono. Anche se è vero che sulle modalità della protesta la discussione è aperta».
C’è chi, ad esempio, andrà a Genova con caschi e scudi di plexiglass («un’inutile provocazione», dice Fabrizio) per parare le manganellate; chi, come alcuni centri sociali, tenterà di sfondare la zona inaccessibile che protegge i lavori del vertice; chi, magari, spaccherà qualche vetrina. «La maggioranza del popolo di Seattle, perché la definizione ci piace», dice Nicola, «ha scelto la fantasia. Faremo iniziative di piazza, ci vestiremo in modo colorato, informeremo sul mondo che vogliamo. Non tenteremo di andare dove ci è proibito. Credo che ci voglia molto più coraggio a parlare con certa gente, compresi i giornalisti che ci chiamano solo per sapere se “faremo casino”, che a tirare una pietra contro una vetrina chiusa».
Annalisa Mazzoli, fotografa
Dalla moda a Fabrica, sino agli occhi di Denis
Dal minuscolo “buco” della Rete di Lilliput al grande spazio del Coordinamento provinciale associazioni handicappati di Treviso (a proposito: quanti stand di enti pubblici a questa Civitas!), dove sono in mostra su grandi pannelli le belle facce degli ospiti dei centri per disabili. Le fotografie – positive, solari, lontane anni luce dalla malinconia di certi scatti che dell’handicap colgono solo i disagi – sono di Annalisa Mazzoli, una bella ragazza di 27 anni di Modena, che con questo lavoro si è “laureata” a Fabrica (l’atelier creativo Benetton). Un talento prestato alla solidarietà, che Annalisa ha incontrato per caso. «Venivo dalla moda», racconta, sempre sorridendo. «Un mondo agli antipodi rispetto al volontariato, che invece mi attirava. Così quando sono arrivata a Treviso per frequentare Fabrica mi sono lasciata interrogare dalla presenza di un gruppo di disabili che ogni mattina saliva sullo stesso autobus che prendevo io. Abbiamo fatto amicizia, e da lì è nata l’idea delle fotografie e del mio progetto finale a scuola». Una scelta che, sussurra Annalisa, forse l’ha penalizzata un po’ agi occhi dei patinati maestri, ma che ci restituisce i veri ritratti di Andrea, Cristina e altri ragazzi che lei conosce per nome, uno a uno. Comprese le loro storie, come quella di Denis, un giovane di 30 anni che non parla e nelle foto mima solo un dialogo con un interlocutore invisibile. A lui, o meglio alle sue scarpe «piccole come quelle di un bambino» abbandonate sul selciato è intitolata l’intera mostra, «perché sono il simbolo della dolcezza che mi ha conquistato di tutti loro», conclude Annalisa, «e mi hanno fatto capire che ciò che vuol essere perfezione non sempre lo è».
Il Club Marocain
Una casa araba è spuntata a Nord Est
Tappeti rossi per terra, due tende per porta, un quadro che incornicia un Corano, due letti coperti di drappi intrecciati: allo stand dell’associazione Club Marocain c’è una vera casa araba con a fianco una piccola moschea. Il tutto ricostruito alla perfezione con la consulenza dei soci marocchini dell’associazione, nata a Treviso dall’idea di far sentire più a casa i tanti stranieri che lavorano nelle fabbriche del Nord Est, e a cui si è presto affiancata la cooperativa Hilal (luna, in arabo) che fornisce servizi di integrazione culturale. Lisa Gasparini, un’altra ventottenne, arrivata anche lei al non profit per caso dopo la laurea in lingue orientali a Venezia, oggi lavora nelle scuole del trevigiano come mediatrice per facilitare l’inserimento dei bambini arabi tra i compagni. Una figura nuova, che affianca i professori («ma non è un’insegnante di sostegno», sottolinea Lisa) e che ora si prepara, per la prima volta in Italia, a varcare la porta di un’azienda. Racconta: «Sappiamo che ci sono imprenditori interessati a migliorare la convivenza tra i dipendenti stranieri e italiani, e noi ci prepariamo a portare anche in fabbrica la nostra esperienza. E la nostra città araba». La casa e la moschea riprodotte a Civitas, infatti, sono solo un angolino di una più estesa struttura (18 metri quadri) che comprende anche il mercato e un guardaroba di abiti nordafricani, con cui Lisa sogna di vestire qualche irriducibile leghista veneto.
Il boom del biologico
Dal caffè all’olio, una festa di bontà
Mi dispiace, non ho le 500 lire di resto», dice la barista. «Non importa, tieni pure», risponde il cliente. Questo dialogo, assolutamente autentico, si è davvero svolto la mattina di domenica 6 maggio allo stand bio-equo-solidale della cooperativa La Tortuga di Padova, un bar dagli arredi esotici che a Civitas ha stracciato per numero di clienti e giro d’affari gli altri due punti di ristoro tradizionali, gestiti dalla Fiera. A testimonianza del fatto che chi sceglie di pagare 4000 lire una sottile (anche se ottima) fettina di torta salata biologica, e 2000 una tazza di caffè equo lo fa perché ci crede, e se capita rinuncia anche al resto. E il successo – scontato – dei prodotti naturali a Civitas è stato sancito sia dalla folla che gremiva i banchi delle cooperative di produzione di olio biologico, latte di riso e banane col bollino anti sfruttamento, sia dal lancio di nuovi prodotti, tra cui una speciale miscela di caffè equo (Macondo) adatto anche ai bar, che così possono inserirsi nel circuito rispettoso del lavoro e delle produzioni del Sud del mondo senza dover cambiare immagine o locale.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.