Non ho mai avuto così poca difficoltà nell’ideare il titolo di un mio articolo, libro, post e simili, come in questo caso. Non solo perché lo trovo capace di attirare l’attenzione di molte persone mosse da varie sensibilità, ma soprattutto per un suo senso di ‘compiuto’ che reclama inviolabilità. Società + Generosità: come si fa a tradurre (in senso giornalistico, voglio dire) un titolo che è già sintesi, e quindi perfezione? Un titolo che rimanda alla necessità di provare a mettere assieme queste due sfere dell’essere per riconoscervi un potenziale di felicità umana. “La società generosa” è un volume appena pubblicato da Feltrinelli/Vita, a firma di due autori: Pier Mario Vello e Martina Reolon. Si tratta di un libro così carico di suggestioni e sollecitazioni urgenti, che non poteva lasciarmi indifferente. Oltretutto, l’incipit più efficace per presentarlo si trova già dentro le sue pagine: “Quello che la cultura storicamente ci tramanda è il sistematico annullamento della generosità in tutte le forme istituzionali, politiche, economiche, gestionali, amministrative, lavorative, e il suo confinamento nella sfera intimistica e asfittica della relazione personale, troppo personale” (p.82).
Mi sembra giusto avvertire chi mi segue che quest’uscita pubblica di Vello-Reolon, tutto vuol’essere tranne che una forma di esaltazione di una qualità morale (anche se ammetto il mio debole per libri come “Dizionario dei vizi e delle virtù” di Salvatore Natoli). Sono gli stessi autori che insistono su questo aspetto quando dichiarano la propria volontà di “condurre l’analisi fuori da un contesto di tipo morale” (p.49) e – più esattamente – nel campo delle innumerevoli manifestazioni dell’ethos (p.50). In altre parole, il libro è complesso, articolato, a tratti ostico, e maneggia le sostanze più esplosive che io conosca (le categorie filosofiche) procedendo per confutazioni sequenziali. Non credo di essere in errore se affermo che siamo di fronte ad una prova di forza.
Le regole del gioco, dunque, sono chiare e chiunque volesse confrontarsi sul tema del dono, non potrà ignorarle. Un concetto ripreso e sottolineato più volte, come avviene a p.82: “Affermare (. . .) che il dono prende corpo nell’esercizio della libertà significa renderlo parte della fenomenologia dell’eticità che, affinché si dispieghi pienamente, necessita da una parte della formazione dell’individuo libero e dall’altra ha bisogno dell’inclusione del diverso, reso amichevolmente partecipe di una società solidale che riconosce tutti gli uomini e le donne come esseri aventi lo stesso diritto alla felicità”.
In realtà, mano a mano che si avanza da un capitolo all’altro, si ha l’impressione che i punti di vista che vanno ‘srotolandosi’ siano diversi. Pur rimanendo nell’alveo di un’impostazione teoretica rigorosa, gli autori fanno ‘filtrare’ abbastanza percettibilmente quale sarà il punto di caduta del libro: la filantropia. Ma sono troppo consapevoli del fatto che sdoganare la filantropia da una cultura di sospetto e di posizioni preconcette, non è un’operazione di poco conto. Ecco perché occorrono ben 95 pagine prima che venga enunciato a chiare lettere il loro proposito: “Ci sembra (. . .) che nella relazione riconoscente e disinteressata rientrino molti fenomeni che vanno al di là della famiglia, compresi quelli della generosità e del dono in tutte le loro forme, quali le espressioni extra familiari di solidarietà, le azioni di aiuto reciproco e di soccorso, le forme di filantropia individuale o collettiva”.
A questo punto, il lettore può dire di aver conquistato il diritto a partecipare attivamente al dibattito inaugurato da Vello-Reolon, che viene via via stemperato della sua aura di ‘pensiero trascendente’ per fare spazio al primato della filantropia: “Poiché consideriamo che la generosità assuma la sua sostanza razionale oggettiva nella forma della filantropia – nel suo generale significato di disposizione positiva verso l’umanità – e prenda corpo nelle varie istituzioni del volontariato, della beneficenza e del non profit, dobbiamo considerare le sue forme istituzionalizzate come di pari grado rispetto alle forme dello Stato e dell’economia, mettendole a confronto” (p. 138). Quando finalmente le carte sono ormai tutte sistemate sul tavolo, la filantropia viene elevata ad oggetto di trattazione quasi ‘monografica’ con l’omonimo capitolo (pagina 177 e seguenti).
E qui il discorso ‘prende il largo’ mediante un excursus che ripercorre sia la dimensione storica del fenomeno filantropico (nascita, sviluppo, decadenza e poi, ancora, rinascita) sia la dimensione geo-politica delle esperienze degne di focalizzazione. Uno spazio importante di analisi viene riservato all’osservazione dei principali attori della filantropia. In particolare, gli autori si soffermano sulle fondazioni di origine bancaria, candidandole a divenire un importante punto di riferimento per tutta la società civile, nonchè interlocutore privilegiato dell’operatore pubblico (lo Stato).
Anche se non espressamente citati, tali enti giuridici compaiono per la prima volta già a pag. 157 del libro; quando, cioè, si parla (negativamente) dei fondi pensione che – nella convinzione di taluni commentatori – rappresenterebbero la soluzione alternativa ideale per permettere il ricambio capitalistico nella governance delle banche italiane: “Così, l’enorme massa di capitale in circolazione nel mondo, derivante dai fondi pensione o da surplus di liquidità e perennemente alla ricerca di opportunità ad alto e veloce rendimento, anziché fare profitto attraverso la produzione di manufatti e di commodities, si è orientata a fare profitto attraverso investimenti finanziari”.
La simpatia che gli autori nutrono per le fondazioni di origine bancaria sembrerebbe idilliaca, ma non è affatto così. Ben presto non esiteranno a rivelarne anche i difetti: a pag. 208, parlando dei vari progetti finanziati, diranno che si tratta pur sempre di soluzioni locali, anche se innovative e supportate da una considerevole quantità di risorse. Non meno severa è la critica che gli autori rivolgono alla filantropia più ‘coraggiosa’: “Il lato critico della venture philanthropy consiste nel fatto che non esiste a tutt’oggi un parametro esplicito e condiviso che faccia da spartiacque tra l’azione che risponde a logiche di profitto e quella che segue logiche sociali e filantropiche” (p.209).
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Sono molti i passi che ho avuto modo di apprezzare in questo libro di Vello-Reolon. Rimango meravigliato di fronte ad una generosità dipinta come “enzima dei legami cognitivi e creativi” (p.52), affascinato dall’ambivalenza semantica dei termini “dono” (interpretabile come “veleno”) e “dare” (utilizzato con il significato di “prendere”) (p.32), eccitato dall’idea che donare possa essere rischioso (p.75).
A fine lettura mi pare di intuire che l’esito in cui culmina tutto il libro sia la teorizzazione di una nuova utopia che si affaccia prepotentemente a pag. 64 (“ affermiamo che esiste concretamente la possibilità di realizzare società che siano creative, efficienti e profittevoli e allo stesso tempo basate su espliciti rapporti di generosità non confinata”); per poi assumere le sembianze definitive di “una nuova idea di universalità” (p.219).
Personalmente, sono tentato da un progetto così ambizioso. Credo però che se potessi rifare oggi la mia scelta (molte volte, si sa, la vita “ti accade” e basta), non rinnegherei la mia preferenza per una “vitalità interiore e generosa, anche se pagata con il prezzo della sofferenza soggettiva” (p.147).
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