Mondo
La società civile dopo la pandemia: affinché il morire non sia vano
Ogni crisi, per quanto terribile, è sempre anche un suggerimento, un segno, una precisa indicazione. Questa pandemia ci dice che dobbiamo mettere in discussione la “vita di prima”. Dobbiamo rifondare la società in cui viviamo riscrivendo il patto sociale
di Pietro Piro
In questi giorni terribili, ho sentito molte persone ripetere di voler tornare alla “vita di prima”, alla “normalità” alla “quotidianità di ogni giorno”.
Io non voglio tornare alla “vita di prima”. Assolutamente no. La “vita di prima” era piena d’ingiustizia, diseguaglianza, povertà, violenza, razzismo, femminicidi, sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
In tutto quello che ho scritto in questi ultimi anni, non ho smesso mai di criticare una società disumana, con il profitto come fine ultimo, che produce continuamente scarto umano. Una società orientata alla morte, divoratrice del pianeta, iniqua e anche diabolica, soprattutto con gli emarginati e gli esclusi.
Oggi, la crisi causata dal cosiddetto “coronavirus”, sta mettendo tutto in discussione. Per che cosa viviamo? Perché lavoriamo? Perché non siamo capaci di fermarci? Perché siamo insofferenti alle regole civili? Perché abbiamo perso il senso dello stare in famiglia? Tutte domande che siamo costretti a farci di fronte alla grande paura della morte. Perché quello che ci terrorizza di più è sempre la sofferenza e la morte. La perdita delle persone che amiamo, dei legami d’affetto, delle relazioni d’amore.
Questa pandemia ci costringe a pensare. Ci costringe a fare delle valutazioni sulla qualità della nostra vita. Ci costringe a guardarci negli occhi. A passare molto tempo con mogli e figli. Carne della nostra carne ma, molto spesso, anche sconosciuti tra gli sconosciuti.
La pandemia ci costringe a stare in compagnia di noi stessi. Non possiamo fuggire nella distrazione organizzata, non possiamo affogare nell’acquisto compulsivo, non possiamo nasconderci nella folla.
Questa situazione-limite, mette a dura prova il nostro sistema nervoso, sempre più drogato dagli stimoli in eccesso e dalla velocità dettata dalla produzione continua di spettacoli.
In questi giorni torniamo a sperimentare l’angoscia della morte collettiva, il naufragio delle identità costruite sul lavoro, la fragilità della salute, il dolore della lontananza, la privazione della libertà di movimento (tanto cara ad Hannah Arendt).
Non abbiamo neanche il conforto delle cerimonie religiose, che hanno un potere enorme di consolazione – per chi crede – nelle tribolazioni della vita. Chi muore in questi giorni non ha neanche il diritto a un funerale.
Sono giorni durissimi, che avranno conseguenze su tutti gli aspetti della nostra vita e che sedimenteranno nell’inconscio, paure da cui non sarà facile svincolarsi così facilmente. Eppure, in tutta questa desolazione, io vedo anche una promessa. Una speranza che indica la via d’uscita.
Ogni crisi, per quanto terribile, è sempre anche un suggerimento, un segno, una precisa indicazione. Questa pandemia ci dice che dobbiamo mettere in discussione la “vita di prima”. Dobbiamo rifondare la società in cui viviamo riscrivendo il patto sociale.
In questi giorni è evidente come non mai il valore della solidarietà, della cooperazione, del sacrificio umile e silenzioso, della responsabilità degli uni verso gli altri.
Questa pandemia c’insegna che abbiamo bisogno di una sanità pubblica e gratuita, di una scuola capace di generare modelli educativi adatti alla complessità del nostro tempo. Abbiamo bisogno di ricerca scientifica e di educazione socio-sanitaria. Abbiamo bisogno di centri specializzati per i disabili e luoghi di rifugio per chi si trova in difficoltà. Abbiamo bisogno di uomini e donne di buona volontà che siano disponibili a lavorare per il bene comune superando l’egoismo e la logica del tornaconto personale.
Abbiamo bisogno di uno stile di vita basato sull’ecologia integrale che sia in grado di stabilire un nuovo e più profondo legame con la Madre-Terra.
Non abbiamo bisogno né dell’uomo solo al comando, né della società della sorveglianza, dei droni, delle telecamere, dei muri. Non abbiamo bisogno di autoritarismo, di chiusure identitarie, di appelli alla purezza della razza. Non abbiamo bisogno di estremisti del consenso, di violenti agitatori di folle, di approfittatori della credulità popolare.
La società che costruiremo dopo la pandemia sarà cooperativa, solidale, responsabile, ecologica, meticcia, aperta o non sarà.
Il rischio più profondo che io vedo in questa crisi è di perdere una grande opportunità di cambiamento. Sé non riusciamo a leggere questo segno come il suggerimento per un mondo nuovo, totalmente diverso da prima, allora le sofferenze patite saranno vane.
Poche settimane prima di morire nel 1980 Erich Fromm disse:
Che tutti coloro che hanno un vero interesse per la sopravvivenza dell’uomo, si riuniscano, si consiglino, meditino su ciò che l’uomo deve fare e per quali scopi l’uomo deve avere coraggio. Credo che la cosa più importante sia: il coraggio di essere se stessi, il coraggio di dire che per l’uomo non c’è nulla di più importante dell’uomo stesso e della sua stessa sopravvivenza, non solo biologica ma spirituale, perché ciò non può essere essere diviso. Sé l’uomo non ha più speranza, allora non ha più possibilità di vivere.
Per l’uomo non c’è nulla di più importante dell’uomo stesso e della sua stessa sopravvivenza. In questi giorni, queste parole risuonano in me con un vigore e una forza spirituale inaudita.
No. Non voglio ritornare alla “vita di prima”. Voglio una vita nuova, per me e per tutte le genti che sono oppresse, che sono nel dubbio, che sono sfruttate, che non hanno un impiego, che vivono delle briciole di un capitalismo disumano. Per tutti quei bambini che non hanno famiglia, per chi vive per strada, per chi abita nei tuguri.
No. Non voglio ritornare alla “vita di prima”. Voglio una vita nuova, rinnovata dall’amore e dalla compassione.
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