Cultura

La società browniana

Ogni epoca ha presunto un certo senso della storia. Qual è il senso della nostra epoca? Possibile non ne abbia più uno e assomigli a quello che i fisici chiamano «moto browniano»

di Sergio Benvenuto

Scena prima

Nel 1905, un giovane di 25 anni spedì a una prestigiosa rivista tedesca di fisica un articolo sul moto browniano. Era così detto un fenomeno alquanto banale, il fatto cioè che particelle molto piccole, ad esempio minuti granelli di polvere, se sospese nell’aria o in un liquido, tremolano e “driftano”, vanno poco a poco alla deriva. Da questo moto, anzi da queste fluttuazioni, il giovane – residente a Zurigo – dedusse che le molecole dell’aria o del liquido non potessero essere infinitamente piccole, che esse avessero una misura discreta e minima, che insomma erano atomi – dal greco, indivisibili e individui. Se ci fossero state delle molecole infinitamente piccole, i loro urti sui granelli di polvere si sarebbero bilanciati e i granelli sarebbero rimasti fermi. E invece fluttuano.

È interessante che i giapponesi chiamano il mondo sensibile, quello in cui viviamo ogni giorno, “il mondo fluttuante”. Einstein (era questo il nome del ragazzo zurighese) dava ragione ai giapponesi.

Dopo di che si è sviluppata la meccanica quantistica, la quale ci dice che tutto è granulare, anche lo spazio e il tempo, e che per questa ragione Achille, se dà un vantaggio alla tartaruga, finirà prima o poi col sorpassarla, perché dovrà superare un numero finito di segmenti. Siccome il mondo non è continuo, esso è in una sorta di eterno movimento browniano. “Lo spazio è un pullulare fluttuante di quanti di gravità che agiscono l’uno sull’altro" [1].

Per la fisica moderna, il nostro mondo va alla deriva, come un ciocco di legno lasciato alla furia delle acque di un fiume.

Scena seconda

Leggo della situazione politica dell’India di oggi. Essa è oggi governata, direi dominata, dal Bharatiya Janata Party (BJP), “il più grande partito politico del mondo” [2], che esprime il premier Narendra Modi. Sfidando il principio secondo cui non è corretto interpretare i partiti asiatici come corrispettivi dei partiti occidentali, mi permetto di dire che il Janata Party è sostanzialmente una forza politica fascista: nazionalista indù, unisce un forte identitarismo nazionale a quello religioso, si regge in parte su forze para-militari, ed è ferocemente anti-mussulmano. Si dà il caso che dell’oltre un miliardo e 300 milioni di indiani, il 14,2% siano islamici. Di fatto, gli islamici indiani occupano i gradini più bassi della scala sociale, anche della scala economica.

Commentando i risultati elettorali indiani del 2014, illustri politologi non si stupiscono del fatto che solo il 10% dei mussulmani votino il BJP, il quale viene votato sempre di più man mano che ci si innalza nel sistema castale indiano (la casta più prestigiosa, i bramani, è quella che più vota per il BJP; il 60% dei bramani). E non si stupiscono del fatto che i mussulmani dell’India preferiscano votare il Partito del Congresso (INC, quello di Gandhi), che aveva invece un progetto di unificazione laica ed extra-religiosa dell’India (il 46% degli islamici vota per l’INC).

Ora, la mia reazione è opposta a quella dei politologi: possibile che addirittura il 10% dei mussulmani indiani voti per un partito che predica una sorta di guerra di religione contro di loro? E anche: possibile che solo il 46% dei mussulmani voti per l’INC? Mi si dirà che in sociologia e in politologia non bisogna guardare alle minutaglie, alle piccole minoranze, che non esistono di solito “maggioranze bulgare”… Quel 10% di mussulmani avranno votato il BJP per errore, o perché male informati, o perché malati mentali, o perché snob… Ma la realtà sociale e politica comprende sempre anche gente che commette errori, che è male informata, malati mentali, snob… Non bisogna credere che questi margini non abbiano il loro impatto sociale. Le eccezioni non confermano necessariamente la regola, diciamo che le eccezioni sono la regola, e la regola nasce sempre dall’intersecarsi di eccezioni. È davvero saggio arrotondare, escludere le frange, la schiuma imprevedibile della divisione tra le cose, per cui gli orli delle cose non sono mai netti, ma sempre dissolventi, incerti?

Quando l’imperatore Teodosio promulgò l’editto di Tessalonica nel 380 – che imponeva il cristianesimo niceno come l’unica religione autorizzata nell’Impero romano – nell’intero Impero i cristiani niceni (perché c’erano anche quelli ariani) non erano forse nemmeno il 10% degli abitanti (stessa ratio dei mussulmani che votano per i loro nemici in India).

La massa, soprattutto rurale e nelle piccole città, era rimasta pagana. Eppure gli storici ci dicono che dopo Teodosio possiamo considerare l’Impero completamente cristianizzato. Ma una completezza alquanto incompleta. La realtà è che una minoranza – in questo caso cristiana – può essere storicamente fondamentale. E perché allora non dovrebbe essere storicamente importante il fatto che ben il 10% dei mussulmani votino per Modi?

Intermezzo

Si dirà che la minoranza cristiana coincideva pressappoco con la classe dominante all’epoca dell’Impero: un ennesimo caso in cui una minoranza domina sulla maggioranza. Ma anche nelle culture di opposizione o rivoluzionarie, spesso sono infime minoranze quelle che imprimono il cambiamento al mondo.

Si pensi al Risorgimento italiano: quanti, nei vari stati che poi hanno costituito l’Italia, si interessavano davvero all’unificazione italiana? All’epoca non si facevano sondaggi, ma è facile immaginare che ben pochi pensassero all’Italia unita. Anche perché la maggior parte degli italiani erano all’epoca analfabeti, e quindi potevano seguire ben poco le vicende politiche. Nei libri di storia si dice che è stata importante nel Risorgimento la componente mazziniana, ma quanti erano i mazziniani? E quanti i carbonari? Furono delle élite intellettuali e politiche che fecero l’Italia, non certo “le masse”. Non ci sono solo élite dominanti, ci sono anche élite d’opposizione.

È questo che mi lascia dubbioso di tante ricerche quantitative sociologiche. Qui le divisioni convenzionali che fa il sociologo delle persone da lui considerate o intervistate vengono assunte ipso facto come divisioni reali. Ad esempio, in molti studi di sociologia si dividono gli intervistati in ‘Agricoltore’, ‘Operaio’, ‘Impiegato, quadro intermedio’, ‘Quadro superiore, industriale, libero professionista’, e se ne traggono conclusioni sulle classi sociali: come se la divisione approssimativa che fa il sociologo tra individui molto diversi, anche se accomunati da un lavoro simile, fosse il corrispettivo di oggetti sociali precisi, definibili. In realtà si tratta di distinzioni ipotetiche, in gran parte arbitrarie, che comprendono sempre un mare di eccezioni. Da qui l’idea, oggi sempre più diffusa, che le classi sociali non siano realtà ontologiche, ma classificazioni nominaliste [3].

Ad esempio, in un suo studio su La distinzione, il sociologo Pierre Bourdieu chiese a donne di ogni ceto sociale cosa pensassero di varie cose, e chiese anche “Fate il bagno o la doccia almeno una volta al giorno?” [4] E, in relazione alla professione del capofamiglia, emerse questo:


Inoltre risulta una risposta positiva tra il 23,2% delle donne che non lavorano e il 32% di quelle che lavorano. La conclusione che bisognerebbe trarne, da sociologi, è che man mano che si sale nella scala sociale, ci si lava di più. Il che di per sé è un’informazione interessante, da spiegare.

Ma io sarei portato ad andare oltre e mi interrogherei su quel quasi 10% di agricoltori che si fanno la doccia ogni giorno; o su quell’oltre 50% di donne delle classi più elevate che non si lavano ogni giorno. È proprio ciò che devia da un’attesa, da una norma in questo caso statistica, che può essere il più interessante. Forse è proprio quell’agricoltore su dieci che tiene a lavarsi ogni giorno quello che indica la via di evoluzione del modo di vita contadino, per esempio. È per questa ragione che non possiamo mai ridurre – come fa certo neo-marxismo superficiale e dogmatico – ogni forza politica, religiosa, culturale, ogni attività economica a una rigida classe, come se la società fosse una serie di scatole tra loro distinte in cui gli individui si ammassano, a parte alcuni raminghi da una scatola all’altra, eccezioni considerate irrilevanti.

Fu l’errore che commise il partito socialdemocratico tedesco alla fine del XIX° secolo, quando vedeva che alle elezioni guadagnava sempre più voti tra i lavoratori. Siccome all’epoca la maggior parte della popolazione tedesca era costituita da lavoratori più o meno manuali, la conclusione fu che prima o poi l’SPD tedesco sarebbe giunto al potere, una volta che tutti i lavoratori avessero votato per quel partito. Fino al punto che ci si stupiva se in un piccolo centro non tutti i lavoratori avevano votato socialdemocratico! Ovviamente le cose non andarono così, perché quelle minoranze di lavoratori (allora) che non hanno mai accettato il marxismo a un certo punto hanno trascinato gli altri lavoratori fuori del socialismo… e negli anni 1930, in gran parte, anche verso il partito nazionalsocialista.

Ogni essere umano non è completamente definito dalle proprie qualifiche sociali: operaio, salariato, imprenditore, giovane, anziano, uomo, donna, alto titolo di studio, basso titolo di studio, eterosessuale, LGTB, sposato, celibe… ecc. Tracciare un cerchio tra individui che hanno rassomiglianze e dire “questa è un’identità sociale” è un grave errore. Se le cose fossero così semplici, la storia umana non sarebbe così caotica e imprevedibile. La storia sarebbe un bel viaggio in treno su una rotaia, un treno che magari ogni tanto verrebbe fermato da qualche imprevisto, una mucca sui binari, un viaggiatore che si suicida… ma che prima o poi arriverà a destinazione.

Ai miei occhi la storia non ha destinazioni, ovvero non ha senso. Nel doppio senso di “senso”. Non va a zig zag verso una certa meta, ma va alla deriva senza meta come le particelle di polvere in un liquido. Il movimento della storia è un movimento browniano.

Terza scena

Come abbiamo detto, Einstein capì che c’è moto browniano perché ogni elemento fluttuante è sollecitato non da pressioni continue, che terrebbero l’elemento in equilibro, ma da pressioni discontinue, discrete, puntuali. Credo che nella società sia un po’ lo stesso: essendo formate da individui, ovvero da elementi discontinui, le società spingono le varie entità sociali – istituzioni, partiti, chiese, movimenti culturali – in ogni direzione. Questo sembra dar ragione a quella corrente sociologica chiamata individualismo metodologico.

Da oltre un secolo i sociologi e i filosofi della società sembrano assillati da questo dilemma: le società sono entità olistiche, ovvero sono un tutto che più o meno condiziona gli individui? oppure le società vanno interpretate come risultante delle azioni degli individui, ciascuno con i propri desideri e le proprie credenze? Quando Lady Thatcher disse che la società non esiste, si rifaceva evidentemente a questa seconda filosofia, secondo cui le entità sociali sono nominali, non reali: esistono solo gli individui che compongono le società. Morale: “pensa agli affari tuoi, e la società andrà benissimo”.

Di solito suol dirsi che l’individualismo metodologico è tipico delle correnti di destra, mentre l’olismo è tipico delle correnti di sinistra, ma non è vero. Molti pensatori schierati a sinistra erano o sono individualisti (un nome tra tutti: Norberto Bobbio), e dei pensatori schierati a destra sono olisti. In effetti l’individualismo molto spesso viene declinato nei termini di una esaltazione della razionalità individuale, dove l’individuo di fatto è assimilato all’homo oeconomicus, ovvero a quell’individuo che, secondo la finzione di molta economia moderna, tende a fare scelte oculate, utilizzando le informazioni di cui dispone, applicando le proprie credenze, per cercare di massimizzare il proprio utile [5] .

Non è qui il caso di approfondire questa annosa questione. Dirò che l’opposizione tra olismo e individualismo è un falso dilemma, perché la società umana è sia effetto delle scelte e dei comportamenti degli individui, sia delle istituzioni (quel che Hegel chiamava Spirito Oggettivo) che danno una forma a scelte e comportamenti umani. In termini aristotelici [6] , direi che gli individui in quanto tali sono la causa materiale della società, mentre gli óla, i “tutti”, ne sono la causa formale.

Quanto alla causa efficiente, essa è costituita dai desideri, bisogni, speranze, pulsioni degli individui. E la causa finale – anche se raramente consapevolmente dichiarata – è la perpetuazione della specie. In fondo, “il fine” di ogni società è perpetuare sé stessa biologicamente, anche se è un fine per dir così implicito (non sempre: il fascismo faceva pagare una tassa a nubili e scapoli).

Quando dico che molti sociologi “olisti” ignorano lo spezzettamento individuale, non mi rifaccio a questa immagine – in fondo idealizzata – dell’homo come calcolatore il più possibile razionale. L’individuo umano, spesso, è non meno allo sbando del granello di polvere: proprio perché lui o lei slitta, l’intera società finisce con il fluttuare, col prendere direzioni impreviste. L’individuo non è un’unità coerente, è – come insegna la psicoanalisi – un fascio di impulsi spesso contraddittori, per lo più irrazionali. Quando un mussulmano povero, mettiamo, decide di votare il Janata Party, la sua scelta è puntuale, precisa, ma gli impulsi che hanno portato a quella scelta possono essere i più idiosincratici e spesso conflittuali. I politologi sanno che moltissime persone nelle nostre democrazie decidono per chi votare il giorno in cui devono andare al seggio, talvolta decidono nella cabina elettorale…. E ciò che fa cadere l’ago su quella scelta piuttosto che su un’altra può essere qualcosa che non ha alcun rapporto diretto con il voto stesso. Può decidere quel giorno di votare Janata perché prima ha litigato con la moglie, oppure perché il giorno prima ha vinto la sua squadra di calcio, oppure perché quel giorno piove e, si sa, “Piove, governo ladro!”… I sociologi sociologisti – i sociologi che studiano la società come se essa esistesse per essere studiata dai sociologi – diranno che ci possono essere variazioni individuali casuali, ma che poi, alla fine, si disegna un quadro coerente, con un suo senso.

Ma è questo senso coerente finale la grande illusione della sociologia sociologista: credere che i processi sociali abbiano cause semplici, lineari, identificabili, descrivibili… Io non trascurerei quel 10% di mussulmani indiani che votano per Modi, come quel 10% di contadini francesi che si fanno il bagno ogni giorno, come insignificanti scarti rispetto alla media, come alone fumoso attorno alle figure chiare dell’ontologia sociologica (le classi sociali, i livelli di reddito, le etnie, i gruppi confessionali). Perché la società tutta è un alone che si trasforma in un altro alone…

Ad esempio, abbiamo letto da più parti che il terrorismo suicida europeo è effetto della marginalità di tanti giovani di origine mussulmana in certe società europee. In effetti i kamikaze d’Europa sono per lo più individui immigrati di seconda o terza generazione, che provengono da famiglie per lo più poco religiose. Da qui la frettolosa causalità lineare: l’emarginazione di tanti giovani nelle banlieue europee è la causa del terrorismo fondamentalista.

Questa semplificazione ci porta fuori strada. Un giovane di origine mussulmana che si sente insoddisfatto, emarginato economicamente o culturalmente in un paese europeo, potrebbe “reagire” in una miriade di modi: potrebbe darsi alla criminalità spicciola od organizzata, darsi alle droghe o all’alcool, ri-emigrare nei paesi d’origine dei familiari, cadere in crisi depressive, divenire assistente sociale specializzato delle aree mussulmane, darsi alla movida, divenire animalista, ecc. ecc.

Se a un certo punto sbocca nella jihad in forma terroristica è perché quella ideologia gli è contigua e sembra dargli una risposta. Ogni ideologia interpreta i nostri problemi, così come li interpreta la poesia lirica, la musica rock o funk, i video, i demagoghi politici ecc. ecc. La società ci offre linguaggi, significanti, attraverso cui cerchiamo di esprimere un nostro malessere idiosincratico, i nostri problemi – e la jihad esprimeva bene la rabbia invidiosa di certe persone. Ma non c’è alcun rapporto causale lineare tra una certa marginalità sociale (che non significa necessariamente grande povertà) e certe opzioni ideologiche “eroiche”.

Che gli individui siano la materia prima della società – nel senso che, se non ci fossero individui, non ci sarebbe nemmeno la società – è ovvietà. Il punto è come questi individui interagiscono creando storia. Certamente le istituzioni, le idee e gli ideali, le fedi, le filosofie, le opere d’arte… stanno là per dare agli individui una direzione. Ma le ragioni e i modi in cui ciascun individuo abbraccia istituzioni, idee e ideali, fedi, ecc., possono essere i più vari, ragion per cui i risultati sono imprevedibili.

E in effetti, chi ha mai veramente previsto la storia? Chi aveva previsto l’evoluzione staliniana del bolscevismo? Chi aveva previsto l’avvento di Hitler nel paese più colto e scientifico d’Europa? Nel 1932 l’ignaro Bertolt Brecht aveva comprato una casa in Germania… Chi nella primavera del 1989 aveva previsto che lo stesso anno il comunismo sovietico si sarebbe suicidato? Chi, solo cinque anni fa, avrebbe previsto l’ascesa del sovranismo anti-globalista, la Brexit, Trump, Salvini? Chi avrebbe previsto trent’anni fa la grande ascesa economica della Cina?

Se qualcuno è riuscito a prevedere il futuro è stato per caso, e poi ha previsto certe cose del futuro, non tutto il futuro. Si è ripetuto fino alla noia che Marx avrebbe previsto il socialismo: ma il socialismo sperimentato dall’Unione Sovietica, e poi altrove, non era un evento profetizzato, era proprio l’applicazione del programma di Marx, era il tentativo di realizzare un progetto consapevole nella storia. Ma certamente Marx non aveva previsto il fatto che la rivoluzione sarebbe scoppiata in un paese capitalisticamente immaturo come la Russia, che essa avrebbe preso una direzione stalinista, che si sarebbero creati due blocchi militari in contrapposizione…. Non ha previsto nulla della storia reale.

Oggi si cita spessissimo la frase del meteorologo Lorenz, “il batter d’ali di una farfalla in Giappone potrebbe causare un uragano in Argentina” [7] , per dire che piccole cause possono comportare grandi effetti, o viceversa; che insomma, il futuro è in gran parte imprevedibile. Ma questo è dovuto al fatto che la storia è vagabonda come nel moto browniano.

Ogni epoca ha presunto un certo senso della storia. Nell’Antichità, prevaleva una visione decadentista della storia: c’era stata un’età d’oro degli eroi, dei gloriosi antenati, e poi il presente era una decadenza continua rispetto a quell’età (era essenzialmente la visione greco-romana). C’era anche un’idea ciclica: a un certo punto un diluvio sterminava le società umane, o gran parte di esse, e l’umanità doveva ricominciare daccapo il suo tragitto, ri-partendo dalla barbarie. L’idea del presente come decadenza rispetto a un luminoso passato si è rinnovata poi con l’Umanesimo a partire dal XV° secolo: gli Antichi, soprattutto greci e romani, erano migliori e più intelligenti dei contemporanei.

Col cristianesimo si è affermata una visione messianica e quindi non decadentista della storia: il mondo andava verso la fine dei tempi, quando Dio sarebbe venuto finalmente a giudicare i vivi e i morti. Da circa tre secoli in Occidente si è imposta quindi un’idea progressista della storia: già in parte con Vico, poi con Hegel, Marx, lo spencerismo, il positivismo… Il progresso è verso la Ragione o il sapere: l’umanità esce poco a poco dal buio dell’ignoranza e della superstizione (ovvero dalle religioni) e va verso la luce della razionalità, di cui la scienza è il paradigma.

Forse, dopo un paio di secoli, siamo a un’altra svolta: l’avanzare delle teorie del caos e della complessità, l’impatto che ha avuto sulla nostra visione del mondo il secondo principio della termodinamica, ci sta aprendo a una visione indeterministica della storia. Ovvero, l’umanità è vista come una barca alla deriva sull’oceano.

È prevedibile un sempre maggior sviluppo tecnologico, certo, ma è difficile dire dove questo sviluppo tecnologico ci porterà. Potrebbe portare alla distruzione atomica o ecologica del pianeta, o a una società più equilibrata e pacifica, o a qualche altra cosa che gli autori di fantascienza si sforzano di prevedere. Chi può dirlo? Non mi pare invece che abbiano il minimo spazio oggi teorie cicliche della storia, come quelle degli Antichi. In questo senso la nostra visione della storia non è affatto nietzscheana.

Insomma, è venuta l’ora di assumere una visione della storia radicalmente a-hegeliana o anti-hegeliana. L’hegelismo mi sembra la più sofisticata versione della metafisica consolatoria secondo cui c’è un senso trascendente nella storia, che converge verso un sapere assoluto. La storia non ha senso, e quindi non ha alcuna segreta razionalità. La storia non ha un’Astuzia, diciamo piuttosto che la storia reale – quello che poi davvero accade – è piuttosto il prodotto moltiplicativo delle stupidità umane.

Note

[1] C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, Milano 2014, loc. 2193.

[2] Dato che conta 110 milioni di membri, più del partito comunista cinese.

[3] Già Raymond Aron sosteneva il senso nominalista delle classi sociali. R. Aron, La lutte de classes, Gallimard, Paris 1964.

[4] P. Bourdieu, La distinzione, Il Mulino, Bologna 1983, pp. 210-211.

[5] Per correggere questo assioma razionalista è sorta poi la psicologia economica, che si focalizza invece sull’irrazionalità del comportamento economico. Daniel Kahneman, Eric Kirchler, Dan Ariely, Richard Thaler, Cass Sunstein, ecc.

[6] Aristotele distingueva quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale. La causa materiale di una statua, per esempio, è il marmo di cui è fatta. La causa formale è la forma che la mente dello scultore vuole imprimere al materiale. La causa efficiente sono i colpi di martello o di pialla dati al marmo. La causa finale è l’intenzione dello scultore di dare una bella statua alla Città.

[7] E. N. Lorenz, "The Predictability of Hydrodynamic Flow", Transactions of the New York Academy of Sciences, 1963, 25 (4): 409–432.

* Psicoanalista e filosofo, ricercatore in Psicologia Sociale al CNR a Roma e direttore dell'European Journal of Psychoanalysis

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