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La situazione dell’umanitario nel Paese. Puntiamo tutto sugli iracheni

Gli stranieri hanno dovuto abbandonare il campo, ma gli interventi di cooperazione non si sono interrotti. Vanno avanti attraverso la società civile locale.

di Benedetta Verrini

Su una cosa i rappresentanti delle ong e i direttori delle agenzie umanitarie sono d?accordo: non si è mai visto niente come l?Iraq. «Mai incontrato un contesto così estremo, e soprattutto così prolungato», dicono Roberto Salvan, direttore generale di Unicef Italia, e Fabio Alberti, presidente di Un ponte per?
Il 21 febbraio, d?altronde, se ne sono andati anche i giornalisti. Dopo il sequestro di Giuliana Sgrena, l?ultimo piccolo fronte di civili italiani presenti in Iraq si è dovuto ritirare. Se si esclude il ?fortino? del Medical City di Bagdad, l?ospedale gestito dalla Croce Rossa italiana, adesso si può dire che il blackout è completo.
Non ci sono più né operatori della comunicazione né operatori umanitari occidentali a testimoniare la situazione del popolo iracheno. Troppi rischi, troppi innocenti nel mirino.
Dopo la grande escalation di violenza partita nell?estate del 2004, come in un lento stillicidio, tutte le ong straniere hanno dovuto ritirare il proprio personale e interrompere i progetti. L?esempio più tragico è stato quello di Care International, che in novembre ha chiuso i battenti dopo il sequestro e l?assassinio della sua rappresentante in Iraq, Margaret Hassan.
Gli ultimi cooperanti italiani avevano lasciato Bagdad fin da settembre, dopo lo choc del sequestro di Simona Torretta e Simona Pari.
Quanto questo isolamento ?blindato? potrà pesare, sulla popolazione, è facile leggerlo dagli ultimi rapporti prodotti dalla Caritas internazionale e da Unicef. «Niente è sicuro in Iraq», sottolinea l?ultimo dossier della Caritas, «è persino pericoloso stare vicino ai poliziotti o alle forze di coalizione perché bersaglio di attacchi». E sul fronte delle emergenze, l?Unicef parla chiaro: «I combattimenti e l?instabilità prolungata stanno causando conseguenze disastrose per i bambini iracheni», ha affermato il direttore generale dell?Unicef, Carol Bellamy, sottolineando come la malnutrizione fra i bambini è raddoppiata tra il 2003 e il 2004, proprio in piena fase di occupazione angloamericana.
«In Iraq c?è una situazione di guerra. è impossibile, al momento, realizzare massicci interventi umanitari e di ricostruzione e sviluppo. Anche la libertà d?informazione cade vittima di questo contesto», commenta Filippo Andreatta, docente di Relazioni internazionali all?università di Parma. Soprattutto riguardo allo sconcerto che si registra per l?impraticabilità degli interventi di emergenza e solidarietà, ritiene necessaria una precisazione: «Mi pare che, in particolare in Italia, il governo abbia enfatizzato la natura umanitaria della missione italiana», dice Andreatta, «ma si tratta di un pericoloso equivoco: a prescindere dalle motivazioni politiche dell?intervento, le truppe italiane sono operative in un contesto di conflitto a bassa-media intensità. Sono in una situazione di guerra: sarebbe importante chiarirlo, da parte del governo, per fare chiarezza nell?opinione pubblica e per salvaguardare la sicurezza del personale militare che si trova sul posto».
Nel frattempo, «non dite che l?umanitario ha abbandonato l?Iraq», dice il direttore di Unicef. «Non ci sono delegati stranieri, ma il sostegno e la copertura delle emergenze restano attraverso una rete di operatori locali. Su di loro, però, siamo costretti a mantenere il più basso profilo possibile, per ragioni di sicurezza. In questa fase di tensione estrema, anche la collaborazione con agenzie occidentali può mettere a rischio la loro vita».
Ad operare attraverso la società civile locale c?è anche Un ponte per?: «è vero che per noi l?impossibilità di essere sul posto a monitorare la situazione e a condividere le difficoltà con la popolazione rappresenta un handicap», aggiunge Alberti. «Però non dobbiamo nemmeno pensare che la presenza di operatori stranieri sia l?unica ancora di salvezza per gli iracheni. Anzi: abbiamo una grande fiducia nella dinamica di sviluppo della società civile locale, che è attiva e che sta prendendo in carico alcuni nostri progetti, ad esempio quelli di educazione sanitaria. In questi giorni sono nostre ospiti in Italia quattro donne irachene rappresentanti di associazioni locali, che testimonieranno il loro lavoro».
La risposta al blackout, allora, per il mondo della cooperazione italiana passa attraverso il sostegno alle associazioni irachene. Anche perché, sottolinea Andreatta, «la pacificazione e il processo di democratizzazione nel Paese sono passaggi lunghi. Le recenti elezioni sono state un ottimo primo passo, ma non rappresentano la panacea per risolvere la situazione».
«Sul breve periodo, sui mesi che aspettano l?Iraq, non posso dirmi ottimista», commenta Alberti. «Credo che la tensione e la violenza resteranno ancora altissime. E comunque le difficoltà perdureranno, almeno fino a quando si manterrà l?occupazione militare straniera». Ma una speranza forte rimane. «La forza di una nazione si fonda sulla gente», dice Salvan. «E gli iracheni hanno voglia di vivere e di cambiare».

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