Politica
La sinistra nell’abisso
La politica orfana Marco Revelli, intellettuale senza patria
di Redazione
Nell’ultimo quindicennio abbiamo assistito ad una progressiva messa fuori gioco. Ma ora siamo all’ultimo atto. La cultura delle merci ha vinto. Creando quel mix distruttivo di omologazione e individualismo. La via d’uscita? Ridare un senso
al senso del limite…
S ulla scena del 2009 si preannuncia un grande assente: la sinistra italiana. Divisa, assediata dalla questione morale che lei stessa aveva innescato contro il grande nemico “Berlusconi”, svuotata di progettualità e di idealità: per la sinistra sarà un vero anno zero. Per ricominciare? E per andare in quale direzione? Vita lo ha chiesto a un grande interprete dei fenomeni politici e sociali come Marco Revelli. Un interprete profondo, appassionato e poco propenso a raccontare favole…
Vita: Come spiegare questa eutanasia della sinistra italiana?
Marco Revelli: Nell’ultimo quindicennio abbiamo assistito ad una progressiva messa fuori gioco. Sono andate fuori corso le parole, il lessico, le categorie e alla fine gli stessi valori che avevano alimentato quella costellazione di posizioni che andavano dai diversi riformismi alle diverse ipotesi di rivoluzione.
Vita: La prende alla lontana?
Revelli: Se noi ci limitiamo a ciò che appare, che raccontano i giornali (il libro Eutanasia della Sinistra di Riccardo Barenghi è una lettura consigliabile) assistiamo a un processo di dissoluzione: se un bel gruppo di registi si fosse messo insieme per scrivere il copione di una tragedia annunziata, non avrebbero potuto fare meglio. Davvero ciascuno ha fatto la propria parte per mettere in fila una catena di errori sistemici, dal modo in cui è stato gestito il cambiamento di nome del Partito Comunista senza nessuna riflessione sulle ragioni di quel fallimento, agli anni 90, al primo governo Prodi, al modo con cui la Sinistra radicale si è frantumata con le tante scissioni di Rifondazione Comunista sino alla scissione all’atomo. Il meno che si potrebbe dire è che il personale di quella sinistra era costituito da apprendisti stregoni che hanno preparato la loro caduta nell’abisso. Se vogliamo praticare un po’ più di pietas, essere più caritatevoli, possiamo dire che la loro era una “mission impossible”.
Vita: Una sorta di eutanasia…
Revelli: Forse più che di eutanasia della Sinistra, si tratta di accanimento terapeutico. Avevano un compito improbo: quello di sopravvivere ad un cedimento strutturale. Forse potremmo trovare due pilastri che sono crollati: l’idea di uguaglianza, che è stata costitutiva della Sinistra, Bobbio ne faceva il valore identificante della Sinistra che la differenziava dalla Destra. Questo pilastro è venuto meno, poi possiamo vedere in che termini. Dall’altra parte il secondo pilastro, il nesso tra partito di massa e politica economica.
Vita: Uguaglianza, parola eclissata…
Revelli: Il tema dell’uguaglianza è diventato drammatico perché le disuguaglianze si sono fatte abissali. Non è più in agenda politica, non trova più programmi, articolazioni e forse non è più nemmeno – cosa terribile che mi spaventa – nelle aspettative dei soggetti che ne dovrebbero esserne i principali portatori. C’è una fuga dall’uguaglianza, nella società che si individualizza, che trasferisce sulle merci i propri valori identificanti. La corsa è alla distinzione, al separarsi, al non condividere. Il mondo che è stato prodotto dal racconto pubblicitario è un mondo in cui tutti consumano le stesse cose ma pretendono di farne oggetto di distinzione.
Vita: Non ci sono spazi per un’uscita da questa trappola?
Revelli: Il problema è se esistono ancora i nuclei culturali nella mente delle persone – Latouche parla di colonizzazione delle menti da parte della logica del mercato totale -, se dentro queste menti colonizzate esiste ancora un pezzo di territorio in cui possa emergere questo istinto di conservazione. Perché quella sarebbe la condizione per fare di un evento infausto la possibilità di un nuovo inizio. Ci sono oggi figure, culture e forze che si muovono nella sfera pubblica capaci di immettere nell’immaginario collettivo, nel senso comune, questi elementi? O, piuttosto, non continueremo in una corsa, replicando il tentativo di ognuno di conservare in proprio un pezzettino di quel passato insostenibile, di quel consumo dissennato cercando di contenderlo agli altri e quindi in un meccanismo di competitività invece che di cooperazione?
Vita: Ci vorrebbe una via d’uscita paradossale. Far propria l’idea che la povertà non è limite, ma ha un senso. È un’uscita possibile?
Revelli: Nelle ideologie sviluppiste la povertà era priva di senso, era l’inferno. Povertà come occasione per la ridefinizione di stili di vita. C’è un rapporto stretto fra produzione di senso e indigenza, che significa consapevole senso di un limite. Se tu togli il limite, togli anche il senso. In uno spazio che non ha nessun limite non riesci a sapere dove sei. Abbiamo vissuto per un lungo periodo in una bolla che aveva allontanato così tanto i limiti da creare l’assuefazione alla loro inesistenza. E nella bolla abbiamo perso il senso. Questa sarebbe una buona agenda politica: riconoscere una condizione di indigenza insuperabile, di finitudine. Capire che le merci non costituiscono un pieno.
Vita: Sul piano più personale come guarda il 2009?
Revelli: Con grande paura perché non ci sono le parole che ci restituiscano una possibilità di ricerca di senso. Nel vuoto c’è il rischio delle retoriche del disumano, forme del discorso che offrono un’idea del risarcimento dell’impoverimento subìto attraverso la ricostruzione di figure collettive e sociali messe fuori dall’ambito umano, il diverso, l’altro, il migrante, il rom, il povero estremo, l’accattone e così via. Abbiamo intravisto esperimenti di retoriche del disumano nei mesi scorsi. C’è il rischio che questi diventino i modi in cui si riproduce artificialmente un falso senso. Questo è quello che mi terrorizza.
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