Sostenibilità
La sfida più grandeper il presidente operaio
Cosa c'è dietro le dimissioni della ministra dell'Ambiente del governo Lula
di Redazione
Perché il 13 maggio di quest’anno, la ministra dell’Ambiente brasiliano ha rassegnato una lettera di dimissioni nelle mani del presidente verde-oro Luiz Inácio Lula da Silva? L’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso molto probabilmente è stata la nomina di Roberto Mangabeira Unger alla guida del Pas, acronimo che sta per «Piano Amazzonia sostenibile», appena cinque giorni prima delle dimissioni di Marina Silva, punto di riferimento dell’ambientalismo brasiliano. Ma le delusioni per la Silva erano iniziate nel 2006, quando il presidente operaio era stato rieletto a Planalto. Nel primo mandato, dal 2003 al 2006, il governo Lula aveva infatti creato 24 milioni di ettari di aree protette nella foresta amazzonica, mentre nel 2007 gli ettari salvaguardati erano stati appena 300mila.
Di sicuro c’è che, non appena Marina Silva ha lasciato la guida del ministero dell’Ambiente, l’Istituto di ricerca spaziale brasiliano, l’Inpe, ha reso noto una serie di dati a dir poco preoccupanti per il più grande polmone verde del mondo. Solo ad aprile, infatti, l’Amazzonia avrebbe perso 1.123 kmq di foresta, un’area pari a quella dell’intera Rio de Janeiro, comprese le periferie. I dati sono purtroppo molto precisi in quanto si basano su una serie di foto aeree e la notizia ha riaperto un dibattito, sia in Brasile che nel mondo, su quali siano le cause ma, soprattutto, quali potrebbero essere le soluzioni per frenare la distruzione del più grande polmone verde del mondo.
Il neoministro dell’Ambiente, Carlos Minc ha denunciato come responsabili i produttori di soia e bestiame, tra cui Blairo Maggi, il governatore del Mato Grosso, lo Stato dove maggiore è stato il disboscamento e, per porre freno alla distruzione, ha annunciato una vera e propria “operazione di guerra” per il periodo compreso tra giugno e settembre quando, tradizionalmente, le motoseghe e gli incendi lavorano a pieno ritmo. Obiettivo? La riconquista militare dell’Amazzonia con l’invio di una truppa speciale di almeno 500 unità del genio militare, per controllare tagliatori clandestini e speculatori, brasiliani e non. Del resto ai ritmi attuali il raggiungimento dell’obiettivo “disboscamento zero” entro il 2015, un punto di orgoglio del governo Lula, rischia di essere un proclama beffardo: secondo alcune statistiche di ong internazionali, infatti, nel 2070 la foresta amazzonica sarà solo un ricordo.
Ma, oltre all’esercito, per proteggere il più grande polmone verde del mondo il Brasile ha addirittura chiamato in causa l’Abin, ossia i servizi segreti brasiliani, che a metà giugno consegneranno un rapporto dettagliato al ministro della Giustizia, Tarso Genro. Secondo le prime informazioni che sono già trapelate sui mass-media brasiliani, paradossalmente sul banco degli imputati colpevoli del degrado dell’Amazzonia e della sua distruzione ci sarebbero anche una ventina di ong internazionali, a cominciare dalla britannica Cool Earth, fondata dal multimiliardario svedese Johan Eliasch, consigliere di Gordon Brown sulle tematiche ambientali e multato dall’Ibama, l’istituto brasiliano dell’Ambiente, di mezzo miliardo di reais, oltre 200 milioni di euro. La sua colpa? Invece di difendere la foresta, come dichiarato ai quattro venti, Eliasch, nei 160mila ettari di terreno controllati da lui, disboscava allegramente alla ricerca di minerali preziosi?
«Tutto il mondo oggi parla dell’Amazzonia», spiega Roberto Mangabeira Unger, ministro brasiliano della pianificazione di lungo periodo del governo e incaricato da Lula di coordinare il Piano Amazzonia Sostenibile che cerca di preservare la foresta, garantendo comunque ai 25 milioni di persone che la abitano uno sviluppo compatibile con l’ambiente. «E sull’Amazzonia», continua Mangabeira, «circolano due idee, entrambe sbagliate. La prima è che per svilupparsi la foresta debba essere consegnata alle forme più predatorie di produzione, a cominciare dalle produzioni estensive di soia e bestiame. La seconda è che la si debba conservare come un santuario, come un parco, per il beneficio dell’umanità. Entrambe sono sbagliate e la soluzione deve essere un reale sviluppo sostenibile dell’Amazzonia».
Come Mangabeira potrà mediare nella pratica tra queste due idee opposte di futuro per l’Amazzonia, lo vedremo nei prossimi mesi ed anni. Per ora lui spiega ad Ecomondo da dove intende cominciare. «Bisogna innanzitutto trovare una soluzione ai problemi fondiari, stabilire la titolarità delle terre, delle proprietà e dell’insediamento, perché senza risolvere questo non si può fare nulla. Subito dopo deve essere fatta una mappatura ecologica ed economica che definisca una strategia, sia per l’Amazzonia con foresta, che per l’Amazzonia che è già stata disboscata o che non ha mai avuto foresta perché accoglie savana tropicale». Di certo, comunque, c’è che per preservare la foresta il Brasile non ha nessuna intenzione di internazionalizzare l’Amazzonia come in molti vorrebbero.
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