Non profit
La sfida dei brutti anatroccoli alla beautiful globale
Editoriale di Giuseppe Frangi
Come ha ben detto Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera del 13 agosto, in Italia è arrivato il momento dei brutti anatroccoli. Ma chi sono i brutti anatroccoli? Sono tutti quei soggetti sociali ed economici dal peso grandissimo ma dall’immagine confusa. Muovono migliaia di persone e risorse ingentissime, ma non amano comaprire nel teatrino della finanza spettacolo e della comunicazione. Scrive De Rita: «Vengono considerate anatre brutte, malfatte e mal cresciute, ma che, a dispetto dei giudizi estetici e morali, hanno dimostrato e dimostrano una forza straordinaria». De Rita poi elenca questi brutti anatroccoli: l’economia sommersa, il mondo cooperativo e le fondazioni bancarie. A questo elenco vorremmo aggiungere un altro soggetto: il non profit (di cui, per altro, il mondo cooperativo è una parte vitale). L’indagine Istat pubblicata poche settimane fa metteva a fuoco delle cifre che non sono davvero più quelle di un fenomeno marginale, con 531mila addetti e un fatturato di 73mila miliardi. Anche il non profit ha goduto di un’immagine cattiva. Si è detto e scritto che per vivere faceva leva su una logica assistenzialistica da prima repubblica.
Ora si scopre che il non profit italiano detiene il record in Europa di entrate da soggetti privati: ben l’86,9% delle organizzazioni senza fine di lucro registra entrate di origine prevalentemente privata. Cosa significano questi numeri? Innanzittuto che l’Italia reale è un Paese molto diverso da quella che appare in vetrina. Un Paese per fortuna meno patinato, più disposto a lottare pur di salvaguardare i propri patrimoni reali. Non è l’Italia degli splendidi cow boys della finanza e della grande industria, alle prese con battaglie così spesso donchisciottesche. In secondo luogo, queste cifre sono anche la premessa per una scommessa del prossimo futuro. Il non profit non deve sottrarsi dall’essere una forza in gioco, non può più chiamarsi fuori da una responsabilità storica di disegnare non solo i valori ma anche, per quel che gli compete, gli assetti di potere dell’Italia del futuro. Se per tanto tempo gli è stata assegnata un’immagine che non gli corrispondeva, questo è accaduto solo perché tante forze erano interessate a tenere a freno il suo sviluppo. Un piccolo ma significativo esempio è quello raccontato a pagina 10: per anni in Aspromonte la burocrazia ha pretestuosamente impedito che fossero le associazioni volontarie a salvaguardare i boschi dagli incendi. In realtà l’impegno dei volontari avrebbe lasciato inattivi gli onerosissimi mezzi di soccorso privati. Ci è voluto quasi un colpo di mano per rimettere a posto le cose: ma i risultati in termini di efficacia e di risparmio si sono subito visti.
Insomma, il non profit non può sottrarsi alle possibilità che gli si aprono e, di conseguenza, anche ai compiti che l’attendono. Non basterà più rifugiarsi in un purismo destinato a essere usato o macinato dalle forze vincenti della storia. Bisognerà giocarsi sino in fondo per disegnare il futuro del Paese in cui viviamo, per renderlo più a misura dei bisogni di ciascuno, più protetto dai tanti che vorrebbero saccheggiarlo per loro esclusivi interessi. Sarà una competizione per guadagnare spazi di libertà e di iniziativa economica, per garantire che tanti ambiti decisivi per la persona non cadano nella logica del profitto. E se per farsi spazio occorrerà infangarsi come i brutti anatroccoli, poco importa. Il vero pericolo è infatti un altro: restare spettatori incantati di questa Beautiful globale. E intanto nel retrobottega altri si spartiscono le spoglie del Paese.
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