Cultura

La seconda vita di Anna Cataldi

Giornalista per caso, nel 1992 è in Somalia per un servizio sulla Hepburn e scopre che lì muoiono 300 persone a notte. «Mi prese una rabbia non ancora spenta».

di Roberto Copello

Anna Cataldi, donna forte e straordinaria, si è spenta giovedì 2 settembre, poco prima di compiere 82 anni. Torinese, ex moglie di Giorgio Falck e poi di Urbano Cairo, ha scritto come giornalista per “Epoca”, “L’Espresso”, “Herald Tribune”, “The Nation” e “El País”, esordendo come scrittrice con Sarajevo. Pubblichiamo un ritratto e un dialogo di Roberto Coppello scritto el 1998 per Vita.

Anna ha sul muro di casa una foto in mezzo ai talibani afghani («Dimmi tu, una donna fra i talibani, eh? E per giunta fumo una sigaretta offerta da loro…»). Anna ha sul caminetto foto di una Audrey Hepburn più radiosa che in Sabrina, con in braccio dei bambini africani scheletriti. Anna ha in libreria volumi che se ti azzardi a spiarli, minimo trovi l'autobiografia di Sarah duchessa di York con dedica “alla mia amica Anna”. Anna anche in guerra non rinuncia al braccialetto e a vistosi orecchini. Anna anche sul fronte si porta dietro un thermos di tè bollente. Anna alza il telefono e chiama Michael Douglas quando le pare. Anna dà del tu a Pavarotti, a Oliviero Toscani, ai più bei nomi del Gotha industriale italiano. Anna è dall'inizio di novembre l'ambasciatrice di pace Onu per i bambini nelle aree di guerra.

“Collega” di celebrità come Muhammad Ali, Michael Douglas, Luciano Pavarotti, Elie Wiesel, Magic Johnson. Solo che Anna di cognome fa Cataldi e vorremmo sapere chi la conosce, al di fuori della jet society italiana e americana. Errore: al di fuori della jet society, dei giornalisti di guerra e dei rappresentanti delle organizzazioni umanitarie. Perché Anna Cataldi è una splendida signora il cui mondo, nella sua prima vita, sono stati i salotti buoni di mezza Europa, dove tutti la conoscevano come la prima moglie di Giorgio Falck.

Nella seconda vita, invece, il suo mondo sono diventate le zone dove l'umanità soffre di più, e qui tutti la conoscono come appassionata militante per i diritti umani. La svolta avvenne nel '92, nella Somalia prostrata dalla carestia, dove Anna era andata per un servizio giornalistico sulla sua amica Audrey Hepburn, ambasciatrice Unicef. Fino ad allora l'Africa per Anna era quella nostalgica di Karen Blixen e di “La mia Africa”, il film cui aveva dedicato sette anni di ricerche e che poi Hollywood le aveva strappato, lasciandole solo una menzione come produttrice associata. Poi le scene strazianti in Somalia spazzarono via quell'idea esotica e fiabesca.

Racconta Anna: «A Baidoa morivano 300, 400 persone a notte. Ogni mattina vedevo raccogliere cadaveri di morti per fame, una morte atroce. Io credevo di conoscere bene l'Africa. E invece… Da allora non ho potuto più fare la turista, in alberghi fiabeschi a pochi chilometri da dove si muore. E poi in Somalia c'era Audrey. Nessuno farà più l?ambasciatore Unicef come lei. Tanti ora mi dicono: hai preso il ruolo di Audrey Hepburn. Macché: lei era molto più buona di me, ascoltava tutti. No, eravamo molto diverse. Spesso mi chiedono chi me lo fa fare. Non puoi andare, vedere, tornare e non pensarci più. Più ci vai più ti responsabilizzi. Io funziono sulla rabbia. E poi, certo, sono privilegiata culturalmente, anche per i contatti che ho. Dopo la tragica morte di mio figlio Giovanni, nel '93 a soli 27 anni, e dopo i matrimoni delle mie due figlie, ho tempo libero e soldi da dedicare alle cause umanitarie. Ma quanto faccio non è più meritorio di stare a casa ad allevare dei figli. Dalla Somalia sono tornata furibonda per quello che avevo saputo sulla cooperazione italiana. C'era ancora Craxi. Ho bussato a tutte le porte: non mi lasciavano neppure parlare. Poi Audrey mi ha detto che l'Unicef faceva un video sui bambini di Sarajevo. Sono partita per la Bosnia: dovevo restarci due giorni, sono rimasta un mese, senza soldi, né vestiti. Finché con Toni Cappuozzo del Tg4 siamo scappati con quel bambino malato, Kemal. L'ho tenuto in braccio tre giorni e tre notti, finché siamo arrivati in Italia, e Toni se l'è preso in casa sua. Da allora pensavo solo a Sarajevo. Allora ho chiesto all'Unicef un incarico, e ne sono diventata portavoce. Poi ho scritto “Lettere da Sarajevo”, un bestseller negli Usa. E a Sarajevo ho conosciuto Annan, capo delle forze di pace Onu. Lui poi ha seguito le mie missioni in Afghanistan, in Angola, nella Cecenia che ho attraversato a piedi, chiedendo passaggi ai soldati. I ceceni sono fantastici, hanno un orgoglio, una dignità. Dicevano: entra nella mia casa ma perdonami se non c'è grande gioia. E il giorno prima gli avevano bombardato la casa… Kofi fu impressionato dalla missione in Cecenia. E poi mi ha nominato messaggera di pace, con la menzione “Per aver provato cosa riesce a fare un individuo da solo senza il sostegno di un governo o di una organizzazione”. Ha una marcia in più rispetto agli altri segretari Onu. E porta in sé una saggezza millenaria, che viene da lontano. L'anno scorso sono anche stata in Angola con il grande fotografo Sebastião Salgado, abbiamo fatto un progetto per le mine antiuomo. Salgado mi prendeva in giro: “Guarda che questa non è la mia Africa, nostalgica e romantica”. È il luogo più triste che abbia mai visto, dove ho visto le cose più brutte. Dopo 36 anni di guerra, non hanno più niente, non sono più niente. No, Diana non l?ho mai incontrata, ma mi hanno dato l'equipaggiamento per le mine che indossava lei… Ora in dicembre pubblicherò “Cinquant'anni dopo”, un libro per l'anniversario della Dichiarazione Onu sui diritti umani, con testi di Annan, Gordimer, Tutu, Magris, Lapierre e gli scatti di guerra dei più grandi fotografi. Poi sto preparando un manuale sui crimini di guerra per insegnare (soprattutto ai giornalisti, sempre così confusionari) a decodificare le violazioni della Convenzione di Ginevra. E poi farò i primi viaggi da “ambasciatrice Onu”. In Guatemala, Colombia, Liberia, spero in Kosovo e Corea del Nord. Ora avrò forse un po? più assistenza. Mi preoccupa però che le visite ufficiali non mi lascino vedere quel che vorrei, non vorrei finire intruppata in mezzo a cortei di funzionari con 50 macchine…».

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