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La seconda primavera araba investirà l’Europa

L’ex leader libico Mahmoud Jibril offre una lettura sulle conseguenze della primavera araba e l’incapacità dei governi arabi di dare prospettive ai giovani. E lancia un monito: di questo passo l'Isis diventerà il più grande datore di lavoro nel mondo arabo.

di Martino Pillitteri

«La primavera araba non ha prodotto degli Stati nazionali. Dopo la caduta dei regimi sono putroppo emerse delle micro nazioni. Per anni i regimi avevavo speculato sulle differenze etniche, tribali e religiose facendo credere all’opinione pubblica di essere gli unici player in grado di tenere unito il sistema. Una volta spariti i regimi, le differenze del tessuto sociale, religioso ed etnico sono affiorate in modo dirompente e violento. Le elezioni democratiche e i governi di transizione non sono riunsciti e non riescono a portare avanti una politica di integrazione nazionale e stanno fallendo dal punto di vista dello sviluppo socio-economico; senza un’inversione di tendenza tornerà la primavera araba e l’Europa pagherà un prezzo altissimo». E’ la previsione diMahmoud Jibril, ex premier del governo provvisorio del Consiglio nazionale di transizione libico nel periodo post Gheddafi e attualmente leader del National Forces Alliance incontrato da Vita durante il Grans Montana Forum che si è tenuto a Bruxelles.

Ci sono due grosse criticità nei sistemi dei paesi arabi, sostiene Jabril. «I sistemi economici arabi non sono evoluti. Le economie arabe non sono connesse tra di loro; fanno business seguendo la loro strada, sono dei battitori liberi. Il problema è che i player non hanno nuppure un ruolo definito. Manca quello che io chiamo il positioning, l’inprinting, l’identità».

In che senso? «Ogno nazione dovrebbe decidere di investire fondi, telnti e infrastrutture in un settore strategico e trainante. Prendiamo la Libia. Come la posizioniamo? E un paese forte nei servizi? nel turismo? nell’agricoltura? Una volta trovato il settor strategico allora si punta tutto su quello».

La Libia ha petrolio.

«Il petrolio non fa parte di questo ragionamento. Esso non genera ricchezza. E’ un commodity che si estrae, punto. La ricchezza è il prodotto del lavoro, della formazione, di un paese che fa sistema.
La seconda criticità riguarda il sistema educativo. E’ scadente e non prepara i giovani a confrontarsi sul mercato globale. C’è accesso alla conoscenza ma non c’è competenza nel gestirla e valorizzarla. I nostri laureati non possono misurarsi con i competitori europei o asiatici. A complicare la situazione segnalo la crescente sfiducia nei confronti governi, diffidenza aggravata anche dai social media. I giovani vedono com’è la vita in altri paesi, sono attratti, sviluppano legittimamente delle aspettative. Invece i governi non sono capaci di offrire risposte e dare prospettive ai giovani. A dare lavoro e risposte ci penserà l’Isis. Di questo passo diventerà il più grande datore di lavoro nel mondo arabo».

Foto Getty Images

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