Mondo
La scure di Cameron “grazia” le ong
La cooperazione internazionale è uno dei pochi settori risparmiati dalla manovra "lacrime e sangue". E non è (solo) una questione di solidarietà
Il 20 ottobre il governo di Londra ha ufficializzato la posizione che molti attendevano: la Gran Bretagna manterrà le promesse e nel 2013 sarà il primo membro del G8 a raggiungere la quota dello 0,7% del Pil da destinare alla lotta alla povertà nel mondo. C’era in gioco la credibilità della coalizione guidata da Cameron che, in campagna elettorale, si era impegnata a difendere l’importanza dell’aiuto pubblico allo sviluppo e il ruolo del Regno Unito a livello internazionale, di cui le politiche di aiuto sono uno degli elementi di forza.
L’annuncio è avvenuto contestualmente all’introduzione di una pesante manovra economica per i prossimi tre anni, con la quale Cameron e il suo governo cercheranno di contenere il deficit pubblico. I numeri parlano di una perdita di circa 490mila posti di lavoro nel settore pubblico, e circa 7 miliardi di sterline (circa 8,5 miliardi di euro) di tagli nel welfare. Pochi settori sono sopravvissuti, fra questi il sistema sanitario e quello educativo. Ma spetta proprio al settore della cooperazione il record positivo: + 35% nei prossimi tre anni.
Il messaggio è chiaro: il governo della Gran Bretagna crede negli aiuti. La decisione di Cameron è una vittoria per il movimento delle organizzazioni non governative del Paese che aveva fatto di «Make poverty history» («Mettiamo fine alla povertà») il motto della sua mobilitazione del 2005, anno del vertice G8 di Gleneagle. E che la Gran Bretagna potesse rappresentare un alleato importante lo avevano intuito anche Bill e Melinda Gates che, due giorni prima dell’annuncio, erano a Londra per lanciare la loro iniziativa «Living Proof», concepita per facilitare la raccolta delle testimonianze dell’impatto positivo delle politiche degli aiuti.
La scelta del governo di Londra ci ricorda che è sbagliato associare necessariamente i governi di centrodestra alla scelta di tagliare gli aiuti e di non investire nella solidarietà internazionale. La stessa amministrazione Bush aveva pensato bene di aumentare le risorse per la cooperazione, soprattutto nel settore sanitario. Il pensiero, quindi, torna all’Italia, che proprio negli stessi giorni ha annunciato un nuovo taglio al già magro bilancio della cooperazione all’interno del ministero degli Affari Esteri: dai circa 700 milioni di euro del governo Prodi si arriverà a sfiorare la quota minima di 170 milioni di euro (vedi sotto la rubrica Scooperation ).
A pagare le conseguenze di queste scelte sono tutte le comunità del Sud del mondo, e la conferenza di ottobre di rifinanziamento del Fondo globale ne è un esempio. L’Italia non ha preso impegni certi per saldare un arretrato di 280 milioni di euro, che significa meno persone che possono essere curate dai trattamenti antiretrovirali, meno persone che è possibile salvare attraverso le cure per la malattie opportunistiche. Ma a pagare le conseguenze di questa gestione delle risorse è l’Italia stessa, afflitta oramai da una clamorosa perdita di credibilità internazionale.
Cosa dovrebbe fare il nostro Paese? Prima di tutto saldare i debiti con le istituzioni internazionali. Servirebbe poi il coraggio politico di raccontare le cose come stanno, e di affermare che non s’intende più giocare un ruolo significativo nella comunità internazionale. Chi la pensa diversamente – e il colore della casacca politica non conta – dovrebbe rimboccarsi le maniche e presentare un serio piano di rilancio, fatto di numeri e di date, per ridare all’Italia un ruolo sulla scena internazionale e nella cooperazione internazionale.
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