Cultura

La scuola speciale degli inviati speciali

Maria Grazia Cutuli. Una giornalista che amava la realtà. Faceva parte di una nuova categoria di cronisti da prima linea che si sono formati anche come volontari

di Ettore Colombo

A morte i volontari occidentali», Corriere della Sera, 7 agosto 2001, articolo di Maria Grazia Cutuli. «Otto occidentali rischiano la pena di morte. Saranno giudicati secondo la sharia, la legge coranica. I Talebani hanno chiuso l?ospedale di Emergency». è un articolo come un altro e sembra scritto ieri, invece è stato scritto tre mesi fa. I Talebani non governano più, a Kabul, le Torri Gemelle non esistono più, a New York, Gino Strada ha riaperto il suo ospedale. Maria Grazia Cutuli, invece, è morta. Uccisa da un commando armato. Forse di Talebani, forse no. Era redattrice ordinaria, al Corriere, che però l?aveva spedita in Pakistan, su sua richiesta, come aveva insistito, un anno fa, per andare in Palestina e Israele (la sua ?terra promessa?), in Africa, in Asia. La Cutuli è stata ricordata giovedì scorso dai suoi amici, dalle sue amiche e da padre Giulio Albanese, il missionario comboniano amico di Elisabetta Burba, oggi inviata di Panorama, ieri compagna di scrivania della Cutuli a Epoca. Lo avevano conosciuto assieme, don Giulio, il fondatore dell?agenzia Misna. Poi entrambe avevano seguito il corso di peacekeeping della Scuola superiore Sant?Anna di Pisa, «la sorella minore della Normale», dice oggi Elisabetta. La Cutuli finisce in Ruanda («Mai nessuno che dica giusto: era lì per l?Alto Commissariato dei diritti umani, dell?Onu, non per quello dei Rifugiati. C?è una bella differenza!»), ben due volte, Elisabetta va in Bosnia, a fare da supervisore elettorale per l?Ocse. Per la Cutuli una specie di paradiso («Da un corso d?inglese a Miami tornò schifata. Ma come vivono quelli lì? Che posto orribile, diceva. Vuoi mettere con l?Africa nera?»), per la Burba un?esperienza negativa. «Vinse il mio istinto di giornalista. Avevo chiesto l?autorizzazione, per scrivere, ma raccontai dei molti, troppi brogli. L?Ocse protestò direttamente con l?ambasciatore italiano. Una sceneggiata». Inseparabili, Elisabetta e Maria Grazia, come Gabriella Saba. Che invece fa la giornalista free lance, ha girato il mondo, e dentro il cuore ha il Sud America, che ha raccontato mille volte per mille giornali, siti, e per il settimanale Diario. Inchieste e reportage bellissimi. Gabriella Saba ha diretto a lungo un giornale di cooperanti, Volontari per lo sviluppo, subito dopo ?la Burba?. Del gruppo fa parte anche Cristina Giudici, collaboratrice di Vita, del Foglio, di Anna e di molti altri giornali. Che tanti anni fa prese e partì per il Nicaragua: era in corso la rivoluzione sandinista. C?è rimasta tre anni, in Nicaragua. Era a Praga ed era il giorno del suo compleanno, quando è morta Maria Grazia. Tutte donne unite dal filo che lega l?amore per il giornalismo all?amore per il Sud del mondo, per ?gli sfigati della Terra?, da cui vogliono tornare appena possono. Paesi dove hanno lasciato il cuore. Maria Grazia, stavolta, ci ha lasciato la vita. “I cooperanti? più bravi di noi” Sta cambiando, il mestiere del giornalista, e in particolare quello dell?inviato. è arrivata una nuova generazione di giornalisti, nelle redazioni. Gian Antonio Stella, inviato del Corriere della Sera, Maria Grazia Cutuli la conosceva bene. «Esistono due tipi d?inviati», spiega. «Quelli che mettono a rischio la vita loro e altrui per poi bere, drogarsi, andare a donne e quelli che non escono dall?hotel. Maria Grazia era di un?altra pasta. Fiera, lucida, onesta: dunque, aveva paura». Ma che giornalisti sono quelli ?alla Maria Grazia?? Al Circolo della Stampa, quella maledetta sera, il 19 novembre, oltre a Stella, c?erano anche gli Inviati di pace, un gruppo di giornalisti che cerca di unire la passione e il rigore del mestiere alla difesa dei diritti umani e dei diritti civili. Rezia Corsini, degli Idp, racconta: «Io il cuore l?ho lasciato in Africa, tra lo Zimbabwe e il Mozambico: se non fosse stato per cooperanti e padri missionari non sarei riuscita a muovermi. Ho capito quei popoli e quelle culture grazie a loro». Enrico Fovanna tifa Kurdistan, su cui ha scritto il romanzo Il pesce elettrico: «Io sono andato lì con i gruppi Un Ponte per Dyarbakir-Un Ponte per Baghdad. Oggi sono vicino ad Emergency, ma soprattutto, non potendo più andare laggiù, dove sono stato arrestato dalla polizia turca, cerco di raccontare le guerre invisibili dei poveri che scoppiano tutti i giorni nelle nostre metropoli». Fovanna, cronista del Giorno, si porta il Kurdistan nel cuore come Giulia Bessio, che dirige Tvm, nuova tv della metrò milanese, si porta dentro Somalia e Haiti. «Ho iniziato girando video per le ong e sono arrivata a mandarle in onda in Rai. Dai cooperanti ho imparato il mestiere. A volte, sono quasi più bravi di noi». Giulia ha smesso di andarci, laggiù, da quando, in Somalia, ha rischiato la vita. Gli era da poco nato un figlio e non se la sentiva più. Ma oggi manda in onda i video di Maso Notarianni, free lance che di figli ne ha due e la testa ben calda. Reduce da poco dall?Afghanistan, dove ha lavorato per sé e per Emergency, commenta così la nuova figura professionale che unisce tanti bravi colleghi: «Lavorare in questo modo, a metà tra il giornalismo e il volontariato, vuol dire non fare carriera, guadagnare poco e sudare molto più degli altri. Insomma, il giornalismo umanitario non è eroico e dà scarsa visibilità, ma dentro sei felice». Luca Rastello oggi lavora a D di Repubblica. Spiega: «La cooperazione internazionale è diventata una fonte alternativa, visto che le fonti ufficiali spesso sono inaccessibili o latitano». Lui ha presente la sua esperienza nella ex Jugoslavia: «Sono partite 70mila persone per quei Paesi e tutte per dare una mano. Molti giornalisti, semplicemente, erano un pezzo di questa società civile: si sono rimboccati le maniche anche loro. Fino al punto di tradire la presunta etica del mestiere: ma cosa dovevamo fare, noi, davanti a Sarajevo assediata?». Livio Sinigalliesi, fotoreporter ?umanitario? di tante guerre, invece non ha parole. «Perdonatemi», dice, «ma non ce la faccio. Maria Grazia e Julio erano dei miei amici. Li avevo visti a Peshawar appena una settimana fa». Scusato, Livio.


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