Diritti

La scuola non inizia per tutti

Nel mondo oggi ci sono oltre 222 milioni di bambini, bambine e adolescenti che non possono frequentare la scuola. Tra loro l’84% vive in un Paese in condizione di crisi protratta. «I minori che non possono andare a scuola sono più esposti anche alla violenza, alla discriminazione e agli abusi», dice Elena Modolo, esperta educazione per l’organizzazione umanitaria WeWorld

di Anna Spena

Nella Striscia di Gaza 45mila bambini di sei anni non hanno iniziato la prima elementare. Loro si aggiungono ai 625mila che hanno già perso un intero anno scolastico a causa del conflitto. Nella Striscia di Gaza, almeno l’84% delle scuole necessita di una ricostruzione completa o di una riabilitazione significativa prima di poter riprendere le lezioni. Ma quanti sono i bambini nel mondo per cui la scuola non è iniziata? E Cosa significa per i minori di tutto il mondo crescere senza senza scuola? Che impatto hanno le crisi umanitarie sull’educazione?

L’educazione è un diritto, sancito nella dichiarazione universale dei diritti umani, dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia ed è parte degli obiettivi di sviluppo sostenibile definiti nell’Agenda 2030 (Obiettivo 4 Garantire a tutti un’educazione di qualità, equa ed inclusiva). Intervista ad Elena Modolo, esperta educazione per l’organizzazione umanitaria WeWorld.

Qual è la situazione attuale?

Negli ultimi anni il numero di persone colpite da diversi tipi di crisi – dai conflitti alle migrazioni, dai disastri causati dal cambiamento climatico alle emergenze sanitarie – è in continuo aumento. Le bambine, i bambini e gli adolescenti vittime di emergenze e crisi protratte, che hanno bisogno di sostegno per la loro istruzione, sono circa 222 milioni. Questo dato è in considerevole aumento, rispetto alle stime di qualche anno fa (75 milioni nel 2015).

Quali sono le emergenze nel mondo non vediamo?


Moltissime. Basti guardare a questo dato: a livello globale l’84% di bambine, bambini ed adolescenti in età scolare che non stanno frequentando la scuola, si trovano in Paesi in condizione di crisi protratta. Oggi gli occhi sono giustamente puntati sulla Striscia di Gaza, ma basta spostarsi di poco per rendersi conto di tutte le altre tragedie. Penso per esempio alla Cisgiordania (La Cisgiordania dimenticata), dove i minori che vivono nei territori occupati hanno enormi difficoltà ad accedere all’educazione. Difficoltà dovute alle difficoltà di movimento e all’insicurezza del contesto. E ancora penso alla crisi dei Paesi del Sahel, stando ai dati Unicef qui hanno bisogno di supporto almeno dieci milioni di bambine e bambini. In tre di questi Paesi, Burkina Faso, Mali e Niger, circa 8.400 scuole nel 2023 sono rimaste chiuse a causa delle violenze e degli scontri armati che si registrano. Un’altra enorme crisi è quella del Sudan: 19 milioni di bambini non stanno frequentando la scuola a causa del conflitto. Ma già prima sette milioni di minori non riuscivano ad accedere all’educazione. E ancora la Siria dove dopo oltre un decennio di guerra civile sono più di 2 milioni i bambini che attualmente non vanno a scuola, e più di 1 milione e mezzo quelli a rischio di dispersione scolastica. Questi dati però non descrivono a pieno l’emergenza. Spesso ci focalizziamo solo sull’accesso all’educazione, ma in diversi casi, anche se i minori che vivono in contesti di crisi protratta  riescono a frequentare la scuola, non raggiungono i livelli minimi di apprendimento.

Tra il 2020 ed il 2021 in circa 85 Paesi si sono registrati oltre cinquemila incidenti ed attacchi a scuole, compreso l’uso militare delle stesse, con novemila studenti, studentesse ed educatori rapiti, feriti, arrestati o uccisi

La scuola è, o dovrebbe essere, idealmente un posto sicuro. Attaccare le scuole in qualche modo significa attaccare la stessa comunità. Perché la scuola all’interno di una comunità gioca un ruolo fondamentale dove si sviluppano competenze sociali e relazionali. Inoltre, nei contesti di emergenza, non andare a scuola espone ancora di più i minori al rischio di lavoro minorile, matrimoni precoci e diversi tipi di violenza. 

In moltissimi Paesi l’emergenza e il conflitto sono diventati cronici. Come si interviene?

È fondamentale armonizzare gli interventi di emergenza con quelli di sviluppo. Perché se gli attori umanitari si ritirano una volta finita l’emergenza c’è il rischio di lasciare un vuoto. Noi lavoriamo, per fare qualche esempio, in Kenya, Cambogia, Mozambico, Brasile e il nostro intervento è finalizzato a sostenere non solo il ritorno ma anche la permanenza dei bambini a scuola. Gli interventi possono essere di diversa natura e combinati tra loro: dalla ristrutturazione degli edifici alla ricostruzione ex novo per ridurre anche le barriere d’accesso per i minori con disabilità o rifacendo i servizi igienici tenendo sempre presente il genere del minore. Ma le barriere possono essere legate anche a fattori socio-economici, quindi lavoriamo per esempio in Mali, e stiamo iniziando a lavorare così anche in Siria, con progetti di cash and voucher assistance, ovvero progetti di assistenza alle famiglie dei bambini più vulnerabili per favorire l’iscrizione a scuola e la permanenza. Per noi sono importanti anche le attività ricreative condotte da personale qualificato e formato, in un ottica di supporto psico-sociale, per permettere alle bambine e bambini di ritrovare serenità e benessere dopo lo stress ed i traumi subiti e promuovere la coesione sociale. Gli interventi di educazione in emergenza mirano a promuovere uneducazione di qualità, e pertanto includono azioni volte a rafforzare le capacità delle persone docenti e del sistema educativo in generale di affrontare le sfide legate al fatto di lavorare in contesti estremamente difficili e con studenti che spesso sono hanno vissuto situazioni stressanti e traumatiche, oltre che promuovere il benessere emotivo dei docenti stessi. L’educazione sia in contesti di emergenza, ma anche in quelli di sviluppo, si rivolge sempre anche alla alla comunità educante nel suo complesso, quindi prevede azioni per sensibilizzare le comunità e le famiglie sull’importanza dell’educazione, sui diritti dell’infanzia e sulla prevenzione della violenza di genere.

Foto: bambini palestinesi raccolgono aiuti alimentari in una tendopoli di fortuna a Deir al-Balah, nella Striscia di Gaza centrale/AP/Abdel Kareem Hana

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.