Formazione

La scuola impari a render conto

La scuola è ripartita e l’obiettivo di tutti è quello di tornare finalmente in presenza. Buttiamo via la dad, ci liberiamo da un vincolo. Questo diffuso e giustificato senso di liberazione non ci deve però far dimenticare i problemi che la nostra scuola ha ormai da anni e che le ultime rilevazioni hanno evidenziato. Che fare?

di Giovanni Biondi

La scuola è ripartita e l’obiettivo di tutti è quello di tornare finalmente in presenza. La scuola infatti è prima di tutto un ambiente sociale all’interno del quale si cresce e si impara. Uscire dalla didattica a distanza appare quindi dopo due anni travagliati il vero obiettivo. Si torna a scuola e questo basta a pensare positivo ad essere felici del pericolo scampato e quindi ad essere sicuri di aver centrato l’obiettivo. Dal punto di vista delle famiglie non c’è dubbio: avere i ragazzi a casa da aiutare a collegarsi, fare i compiti ha rappresentato spesso un vero problema. Dal punto di vista dei ragazzi il ritorno a scuola, la socialità che è parte essenziale per la crescita oltre che essere un bisogno quasi fisico specialmente per gli adolescenti, è già di per sé un risultato.

Buttiamo via la dad, ci liberiamo da un vincolo, da una scelta che non abbiamo fatto ma alla quale siamo stati costretti dalla pandemia. Questo vale per moltissimi insegnanti costretti a fare i conti con tecnologie tenute rigorosamente fuori dalla porta dell’aula prima della pandemia e che poi invece hanno imposto il loro utilizzo per molti mesi. Finalmente si torna in classe, si tirano fuori registri, si torna ad ascoltare il suono della campanella, si torna al banco e alla cattedra. Insomma si torna alla normalità.

Questo diffuso e giustificato senso di liberazione non ci deve però far dimenticare i problemi che la nostra scuola ha ormai da anni e che le ultime rilevazioni hanno evidenziato.

Tra i tanti dati messi a disposizione da Invalsi quello della “dispersione implicita” mi pare significativo della situazione di grave difficoltà del nostro sistema. Questo indicatore misura la percentuale degli studenti che pur avendo raggiunto un titolo di studio finale (parliamo degli studenti di 18-19 anni), hanno competenze in italiano e matematica inferiori al livello 3. Hanno quindi un “pezzo di carta” in mano ma competenze del tutto insufficienti sia nella vita sociale che lavorativa. A livello medio nazionale si tratta del 7,3% ma quello che risalta è la forbice dei dati tra Nord e Sud:

Si va da 16,7% in Calabria, 13,9% in Sardegna, 13,4% in Basilicata, 13% in Sicilia, 12,2% in Campania al 5,6% in Toscana, 3,9% in Liguria, 3,6% in Emilia Romagna, 3,4% in Piemonte, 2,2% in Lombardia fino al’1,1% in Trentino.

Quindi in Calabria ci sono studenti analfabeti, pur essendo diplomati otto volte di più che in Lombardia. Un rischio gigantesco di emarginazione culturale di una generazione di studenti che pure ha raggiunto il sospirato diploma.

Una differenza tra le regioni impressionante. Eppure abbiamo regole uguali per tutto il territorio, sistemi di reclutamento degli insegnanti che non variano a livello regionale, programmi uguali per tutti, orari e calendari, perfino arredi, libri che si possono scegliere al nord come al sud. Abbiamo affidato a questa “uniformità” di regole la garanzia per avere pari opportunità, la garanzia di sistema di uguaglianze per tutto il nostro Paese. Scopriamo invece che questo sistema produce grandissime disuguaglianze, disparità di opportunità tra chi vive in una parte del nostro Paese ed altri che per il solo fatto per risiedere in altre zone escono dalla scuola con competenze maggiori.

Abbiamo un sistema che alla fine protegge queste ingiustizie, che le “nasconde” dietro il raggiungimento di uno stesso diploma dietro il quale invece si nascondono profonde differenze.

Abbiamo guardato con sospetto all’autonomia perché questa avrebbe ampliato le differenze e difeso un sistema che negli anni le ha ingigantite. L’abbiamo dichiarata ma non agita, ci siamo impegnati a limitarne gli effetti. Senza una reale autonomia non ci può essere neppure una valutazione né delle scuole né degli insegnanti e a maggior ragione neppure dei dirigenti scolastici. Sono due elementi legati tra loro. È forse giunto il momento di liberare la scuola dai vari rav e simili e di uscire da
una valutazione, programmazione formale che diventa spesso solo un adempimento burocratico.

Dobbiamo passare ad una reale autonomia delle scuole che comporta anche una vera responsabilità sui risultati e non sui processi, non sul fatto di aver seguito tutti i passaggi, di aver compilato i registri, di aver fatto l’autovalutazione, aver fatto i compiti in classe e interrogato enne volte tutti gli studenti…. Questo processo non garantisce nessun risultato come dimostrano i dati. Abbiamo il dovere di cambiare il sistema e avere il coraggio di introdurre nella scuola il concetto di accountability: responsabilità, rendere conto non degli aspetti formali, ma dei risultati.

Quindi dobbiamo essere contenti di essere tornati a scuola ma non dobbiamo dimenticare che questo modello, questo sistema scolastico anche a livello internazionale, è il fanalino di coda in Europa. L’indagine sulle competenze dei quindicenni fatta dall’Ocse nel 2018 pone l’Italia con 476 punti dietro la Francia 493, la Germania 496, il Regno Unito 504 e gli Usa 506.

Quindi viva la scuola che riapre le porte e speriamo che non sia costretta a richiuderle ma non pensiamo con questo di poter archiviare i problemi di un modello scolastico che deve essere profondamente innovato.

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